LA GUERRA ATOMICA PARTIRÀ DALLA COREA?
LA SANTABARBARA NORDCOREANA, PUR SE LIMITATA, È UNA MICCIA SUFFICIENTE A SCATENARE UN CONFLITTO, CHE È DUBBIO POSSA RESTARE SOLTANTO REGIONALE. PYONGYANG CONTROLLA IL QUARTO ESERCITO DEL MONDO, 1.900.000 SOLDATI SU 23 MILIONI DI ABITANTI. SONO STATI EFFETTUATI, INOLTRE, TRE TEST NUCLEARI, DURAMENTE CONDANNATI ALLE NAZIONI UNITE, MENTRE SI È IN ATTESA DI UN QUARTO
A Washington e a Pechino han-no più paura che a Seul. Perché i dirigenti americani e cinesi sono perfettamente in grado di valutare, attraverso i propri servizi segreti, qual è il rischio di guerra – e in questo caso di guerra atomica – che parte dalla penisola coreana. In particolare dalla Corea del Nord, un paese al limite della fame e della bancarotta, che però ha sviluppato e continua a sviluppare un proprio arsenale nucleare, in grado di colpire – così almeno affermano i suoi capi – non soltanto le basi degli Usa in Giappone e nel Pacifico, ma addirittura uno stato dell’ Unione, l’Alaska. I sudcoreani, invece, sono abituati a sessant’anni di docce scozzesi con l’avversario del nord anche se, a livello ufficiale, non si nascondono le preoccupazioni. La santabarbara nordcoreana, pur se limitata, è una miccia sufficiente a scatenare un conflitto, che è dubbio possa restare soltanto regionale. Pyongyang controlla il quarto esercito del mondo, 1.900.000 soldati su 23 milioni di abitanti, comunque molto male equipaggiato e con problemi di scarsa tenuta fisica. Possiede pochi missili, i Musudam, con una gettata di tremila chilometri o poco più, qualche decina di Nodong che arrivano a 1.300 chilometri, alcune centinaia di Hwasung-5 che si fermano a 500 chilometri (in grado però di colpire Tokyo e Pechino). Di altri, molto più potenti, si favoleggia soltanto: vengono fatti sfilare nelle grandi parate ufficiali, ma si pensa che siano finti e sino a questo momento non si ha notizia che siano operazionali. Intanto, però, sono stati effettuati tre test nucleari, duramente condannati alle Nazioni Unite, e si è in attesa di un quarto. E si sa che il regime è in grado di produrre da quattro a otto bombe atomiche. Ce la faranno i vettori a trasportarle e a non sbagliare lanci, come è accaduto più di una volta? Questo il dubbio che non fa stare tranquilli gli altri protagonisti del teatro dell’oriente asiatico; e, per la verità, anche il resto del mondo. Essi si ritrovano con un interlocutore, il trentenne presidente Kim Jong-un, non soltanto dall’imprevedibile carattere, ma anche prigioniero di una ferrea struttura familiare e della casta militare, che gestiscono il vero potere. E così il giovane dittatore nelle ultime settimane ha minacciato di mettere la penisola coreana a ferro e fuoco e di seminare inoltre morte e distruzione in Giappone e in America. Non si spiegherebbe, se il pericolo non fosse reale, il lungo giro diplomatico (condito da severi avvertimenti) del ministro degli esteri statunitense, John Kerry, prima in Europa, poi nell’Asia del sud-est, concluso con una visita in Cina. Né si spiegherebbe l’eccezionale spiegamento di forze Usa nel Pacifico settentrionale: cento mezzi navali rafforzati dalla Uss Freedom, l’ultimo modello di superportaerei; sofisticati bombardieri tecnologici, capaci di non farsi reperire dal nemico; settantamila uomini, disseminati dal Giappone alla base di Guam; manovre aeronavali congiunte (e clamorosamente esibite) con i sudcoreani e i giapponesi. Perciò la politica internazionale è in vibrazione: ogni giorno la stampa mondiale dedica pagine e pagine al problema coreano, che pare provincialmente ignorato dai media del nostro paese, tutto preso da meschini affari domestici. Si muovono le Nazioni Unite, ad alto tasso di inquietudine; persino la Cina conviene con gli Stati Uniti sulla necessità di denuclearizzare la penisola coreana. Anzi, Pechino ha mandato più di un segnale al tradizionale protetto e alleato nordcoreano perché torni sulle vie della saggezza e del negoziato: in primo luogo lo ha fatto votando all’Onu una mozione che estendeva le sanzioni economiche e poi con pubblici ammonimenti. Se la Corea del Nord si ostina, è stato scritto da un autorevole quotidiano cinese, “ne dovrà pagare il prezzo” e “l’aiuto che riceve sarà ridotto”. Mentre lo stesso presidente cinese Xi Jinping, pur senza far nomi, ha avvertito che “nessuno si deve sentire autorizzato per egoismo a precipitare nel caos la regione, e a maggior ragione il mondo intero”. è difficile dire come un conflitto locale possa degenerare in qualcosa di più vasto, specialmente se coinvolge le due massime potenze mondiali, Stati Uniti e Cina, che nell’area del Pacifico – la maggiore via di traffico dei commerci internazionali – si giocano la supremazia. Da parte cinese si è consapevoli che, nonostante lo sforzo in atto per ammodernare le forze armate, occorreranno decenni per raggiungere un minimo di equilibrio: non è questo il momento di trovarsi coinvolti in una guerra. Pechino, inoltre, teme la proliferazione atomica: se dopo India, Pakistan e Nord Corea, anche Giappone e Corea del Sud pretendessero di dotarsi di una difesa nucleare, l’accerchiamento sarebbe completo. Senza contare che un contrasto, anche limitato, fra le due Coree muoverebbe enormi masse di rifugiati con un naturale sbocco in Cina, probabilmente non preparata, né disponibile, a un evento del genere. L’attuale stato di tensione, infine, mette in evidenza la realtà del concreto controllo americano del Pacifico e fa “perdere la faccia” a Pechino: una situazione intollerabile per la psicologia cinese. Quindi vengono seguiti quotidianamente i gesti e i detti del regime nordcoreano: per il momento è passato senza conseguenze, il 15 aprile, l’anniversario del fondatore della repubblica Kim Il-sung, data simbolica che avrebbe potuto coincidere con esperimenti nucleari o lanci di missili dimostrativi. Forse perché lo stato rovinoso dell’economia non permette altri azzardi, a meno che non si giudichi necessario uno scontro per calmare la collera popolare e la fame. E sarebbe – non è la prima volta che avviene – la peggiore delle ragioni.