LA GENTE VUOLE UNO STATO AMICO…
«Se il chicco di grano caduto in terra, non muore rimane solo, se invece muore, produce molto frutto». Le parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni non lasciano dubbi: se non si accetta la croce che la vita riserva a ognuno di noi e quindi non si vive la trasformazione attraverso la fede, tutto avrà una fine. Al contrario, avremo e forniremo frutti eterni a tutti. Proprio quello che è accaduto a Vincenzo Zoccano, attuale vice ministro della Famiglia e la Disabilità, appartenente al Movimento Cinque Stelle. Diciamo subito che lui è vivo e vegeto, ed essendo credente ritengo non ricorra neanche agli scongiuri leggendo queste righe… Però ha capito cosa vuol dire cadere e poi rialzarsi diventando più forte di prima. E soprattutto come condividere con gli altri ciò che abitava nel suo cuore trasformandosi, così, in una spiga feconda. A diciotto anni, infatti, Vincenzo è diventato un non vedente assoluto. I suoi occhi si sono chiusi alla luce, ma non alla vita. Dopo un comprensibile momento di smarrimento ha chiesto aiuto al buon Dio trovando in lui forza e speranza. Una gran bella risposta alla cosiddetta cultura dello scarto che nell’attuale società, purtroppo, prova a diventare mentalità comune. Non caso, infatti, papa Francesco recentemente ha ricordato al mondo che le vittime di ciò sono proprio le persone più deboli, le più fragili, cioè quelle incarnate oggi dall’istituzione famiglia e dal mondo della disabilità. E dire che la famiglia rappresenta un’esperienza fondamentale per la felicità delle persone e il bene comune della società. Come anche parlare di disabilità significa parlare di creature privilegiate dall’amore di Dio e non, invece, di peso sociale e familiare come sostenuto da tanti stolti…
Quarantacinque anni, già presidente del Forum italiano sulla disabilità e componente della direzione nazionale dell’Unione italiana ciechi e degli ipovedenti, dallo scorso 13 giugno Vincenzo Zoccano ricopre, nel governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte, l’incarico di Sottosegretario di stato alla presidenza del Consiglio dei ministri con deleghe a Famiglia e Disabilità. Affianca il ministro Lorenzo Fontana (Lega). È il primo il primo vice ministro non vedente della storia Repubblicana. Dice di voler avvicinare, attraverso un lavoro di squadra, le politiche e i provvedimenti governativi al benessere generale, creando così una società il cui unico profitto dev’essere quello dei cittadini. Intenzioni decisamente nobili che fanno tornare alla mente l’insegnamento di Giorgio La Pira, il “sindaco santo” proclamato venerabile dalla Chiesa. Bisogna stare in politica senza calcolo, ripeteva, l’unico è quello dell’Evangelo e cioè fare il bene perché è bene. Alle conseguenza del bene fatto, aggiungeva, ci penserà Iddio.
In attesa di vedere cosa ci racconterà il futuro di questo governo, il “presente” mi porta nello studio del vice ministro, a due passi da Palazzo Chigi. Gentile, disponibile e animato da una grande energia. La bella storia di Vincenzo Zoccano è contraddistinta da coraggio, impegno, idee e condivisione. Ascoltiamolo.
A che età ha perso la vista?
Sono nato ipovedente, vedevo da un occhio solo con un residuo di circa un ventesimo.
La causa?
Un’atrofia del nervo ottico. Successivamente, contro ogni previsione medica, all’età di 18 anni ho avuto un drastico peggioramento fino allo spegnimento del visus. E lì è cambiato tutto…
Immagino ci sia una grande differenza tra una cecità congenita e una acquisita…
Sicuramente. Il cervello di chi ha visto non è abituato a non vedere, io vedo un chiarore diffuso, a volte anche quasi buio perché non ho la percezione della luce esterna. Il cervello, come dicevo, non si capacita che l’immagine e la luce non ci siano più quindi, evidentemente, cerca di simulare un qualcosa per non farti impazzire… Diversamente, chi non ha mai visto non vede. Non vede buio, semplicemente non vede.
Come si convive con la cecità?
Allo stesso modo con cui si convive con la luce se si ha consapevolezza di una condizione da accettare, da superare e poi da mettere a disposizione del prossimo. La cosa fondamentale è proprio l’accettazione, il superamento e il mettersi a disposizione degli altri.
Qual è l’ultima immagine nitida che le resta nella mente?
Non c’è stata un’ultima immagine in quanto il visus non si è spento di colpo. Però c’è una cosa che vedevo spesso e che mi ha allarmato non vedendola più. Abita-vo a Muggia, in provincia di Trieste, e dal balcone di casa scorgevo in lontananza il campanile del duomo. Una mattina, però, non l’ho più visto… Credevo dipendesse dalla nebbia, una volta in strada, però, mi sono reso conto che non era così…
La sua prima reazione?
Avendo un briciolo di fede mi sono rivolto a Dio dicendogli: “Caro Signore, adesso è arrivato il momento che ti riprenda in mano la mia storia… Intervieni nella mia vita come solo tu sai fare, sarà la prova provata della tua esistenza…”. Ovviamente non stavo “sfidando” il Padreterno, ma l’uomo ha bisogno di segni, non necessariamente mistici. Per capirci bene, non mi è apparso nessuno… ma semplicemente, da subito, sono stato pervaso da una sensazione di estrema sicurezza e di pace. Le stesse che da quel giorno mi accompagnano quotidianamente. Come si legge nella letteratura, Dio scrive dritto sulle nostre righe storte e interviene nella storia dell’uomo quando veramente serve e quando veramente l’uomo lo chiede con una certa forza. Così è stato per me. Ho accettato la perdita della vista, l’ho superata e quindi cerco quotidianamente di mettere a disposizione nel miglior modo possibile la mia condizione affinché possa essere di aiuto anche agli altri.
In questo straordinario e lodevole percorso, oltre alla fede quanto l’ha aiutata la tecnologia?
La tecnologia ha radicalmente cambiato la vita delle persone con disabilità, ma lo ha fatto anche con tutti gli altri. Penso ad esempio al telecomando del televisore, alla musica digitale, a Internet, allo smartphone… Tecnologie che sembravano volessero prepotentemente escludere noi non vedenti dall’inclusione nella società civile… In realtà così non è stato, grazie anche alla nostra tenacia e all’aiuto di tanti, tra cui le società che producevano questi dispositivi, l’Unione italiana ciechi ipovedenti e l’istituto Cavazza. Oggi un cieco usa perfettamente lo smartphone o il computer. Io, ad esempio, sono eternamente connesso, d’altra parte con il mio incarico non potrebbe essere diversamente.
Mi hanno detto che lei è un fine programmatore…
Mi definisco un mezzo programmatore perché non ho una laurea, ma da autodidatta ho accumulato parecchia esperienza. Programmo, sviluppo, utilizzo, testo.
L’istituzione di un ministero dedicato alla famiglia e alla disabilità è stato fortemente voluto dall’attuale governo, in particolare dal Movimento Cinque Stelle. Cosa risponde a chi l’ha definita una scelta ghettizzante?
Che non ha capito cos’è il ghetto… Parliamo, infatti, di un ministero che attua una sistema di coordinamento e di armonizzazione delle politiche. Dove sarebbe il ghetto? Noi non ci occupiamo solo di disabilità, noi siamo la disabilità che si occupa della società civile, che cerca di migliorare la politica nell’interesse generale e nel maggiore interesse della nazione. Uso queste parole un po’ politicamente arcaiche per dire che fino a oggi le politiche sulla disabilità sono state fatte a spot e a compartimenti stagno. Una soluzione che consente un giusto rapporto scientifico, amministrativo e politico fra i ministeri.
Parliamo di un settore contraddistinto da un ginepraio di leggi…
Aggiungerei che spesso si contrastano l’una con l’altra… Da qui, dunque, l’esigenza che viene proprio da questo ministero dopo un colloquio con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, di varare un nuovo codice unico sulla disabilità. Il ghetto c’era prima, quando ognuno pensava a curare i propri affari… Ricordo che sono state fatte molte leggi senza coperture finanziare e quindi inapplicabili.
Famiglia e disabilità sono due facce di una società sempre più sorda… Come attuare un vero cambiamento?
Innanzitutto coinvolgendo direttamente i destinatari per cui si lavora e con cui si lavora. E poi uscendo dalla nostra zona di confort. Quando infatti ci viene proposto, o a volte imposto dalla vita, di uscire dalla nostra situazione di confort ci restiamo male… Il cambiamento – parliamo di un problema culturale – è sempre vissuto in maniera traumatica, è un qualcosa che ci disturba.
Dalla famiglia arriva il capitale umano, spirituale e sociale primario di una società. Attraverso quale politiche, dunque, è possibile custodirlo e perché no arricchirlo?
Da cattolico credente dico che famiglia è la cellula fondamentale della società, parte tutto da lì. Una famiglia “malata” genera malattia, problemi. Quando invece è seguita dalla società dispensa benefici a tutti. Occorre pertanto agevolarla e sostenerla concretamente nelle attività quotidiane. Una famiglia che viene lasciata sola da uno stato troppo intento ai ricavi e poco attento alle esigenze delle persone, è un male per tutti.
Da più parti, però, si registrano tentativi per snaturarla…
Noi veniamo da una tradizione cristiana che dobbiamo salvaguardare, naturalmente senza avere paura del diverso, dello straniero. Non dobbiamo rinunciare ai nostri valori per quelli altrui, non sarebbe giusto né per loro, né per noi. Per carità, lo stato non può togliere i diritti, però se penso alla famiglia a me viene in mente padre, madre e figli… Ci possono essere anche altre situazioni giuridiche, però non devono necessariamente scimmiottare la famiglia.
Quanto incide, oggi, la pluralità dei modi di intendere la famiglia nell’impoverimento del ruolo della stessa?
Se non si ha consapevolezza di ciò che si ha inevitabilmente ci si impoverisce. Forse oggi il termine pluralità è troppo abusato, occorre infatti vedere che senso diamo al termine, quanto allargarlo e quanto restringerlo. Bisogna che ci si metta d’accordo sul significato di pluralità in una società cosmopolita com’è quella di oggi dove le informazioni viaggiano alla velocità della luce. L’impoverimento culturale nasce dalla paura nei confronti di qualcosa che è diverso da noi. Io non devo aver paura del “diverso”, la diversità è un qualcosa che ci può unire, naturalmente senza svilire la tradizione e la cultura di ciascuno. Possiamo “contaminarci” senza rovinarci l’esistenza…
Il cosiddetto terzo settore, da sempre, rappresenta il luogo naturale dell’incontro dei bisogni dei soggetti deboli. Di fatto, però, a causa della politica dei tagli nelle politiche sociali in atto da anni diventa oggettivamente difficile raggiungere gli obiettivi strategici e dare risposte ai bisogni emergenti delle fasce più deboli. In pratica il famoso “costo zero”, spesso evocato quando si parla delle organizzazioni del terzo settore, non porta da nessuna parte e anche la creatività di chi vi opera si è esaurita… L’attuale governo come intende muoversi?
Abbiamo un codice del terzo settore, ereditato dal governo precedente, dove tanto è stato scritto. Non buttiamo via tutto solo perché porta la firma di altri, però lo valutiamo con un atteggiamento criticamente costruttivo apportando i correttivi secondo la nostra visione. È chiaro che bisogna fare degli investimenti. Da qui al prossimo agosto, o anche oltre se sarà necessario prorogare i termini, quella serie di decreti attuativi che applicano la riforma del terzo settore dovrà essere fatta.
Sanità e sociale possono stare insieme oppure andrebbero gestisti separatamente?
In Italia purtroppo ci troviamo di fronte a una disomogeneità di comportamenti. Ci sono regioni dove sanità e sociale sono insieme mentre a livello centrale appartengono a due ministeri diversi… Che sanità e sociale debbano interfacciarsi e parlare tra di loro è un fatto, credo però sia un errore metterli insieme. Se ad esempio ho 100 euro e devo decidere se spenderli per una persona in pericolo di vita oppure per comperare un ausilio per l’integrazione sociale, cosa faccio? Credo non ci siano dubbi, spendo quei soldi per salvare una vita… Se metto quindi insieme la sanità con il sociale quest’ultimo, inevitabilmente, sarà costretto sempre soccombere.
Da non vedente quali sono a suo avviso le barriere più difficili da buttare giù: quelle architettoniche o quelle culturali?
Sicuramente quelle culturali. Se non si buttano giù quelle non cadranno neanche le altre. Ogni progetto nasce dalla testa, ma se questa è rivolta all’indietro e non vive i problemi dell’oggi, tutto sarà vano. Dove vive bene una persona con disabilità viviamo meglio tutti. A differenza di tanti paesi del Nord Europa abbiamo leggi sulle barriere architettoniche parzialmente applicate o addirittura non applicate. E l’unico modo per farle applicare sono le sanzioni…
Perché è così difficile far capire che la disabilità è una risorsa e non invece un peso?
Parliamo purtroppo di un altro problema culturale. Chiediamo aiuto alla storia: gli spartani, ad esempio, quando nasceva un disabile lo buttavano giù dalla rupe… Cosa può fare un invalido, pensavano, se non essere un fardello? Che cosa me ne faccio di un figlio malato, che contributo esso potrà dare alla società e alla mia famiglia? Questo era un ragionamento antico ma che, ahinoi, ancora si veste d’attualità… Oggi la disabilità viene vista spesso come un qualcosa da nascondere, come una disgrazia, come un castigo di Dio… Nulla di più sbagliato visto che parliamo di una condizione che può essere congenita, oppure può determinarsi lungo il percorso di vita per un incidente o una malattia. Tutto dipende da come la viviamo. Se avessi vissuto la mia cecità come una disgrazia, cosa sicuramente per me più comoda, mi sarei seduto sulla poltrona chiedendo a mia madre, a mio padre, alla società civile, alla politica, al governo o magari al Padreterno di essere protetto. Non mi sarei messo in gioco, avrei chiesto a loro di farlo. In quel caso sarei sicuramente un peso…
Un po’ di responsabilità, dunque, sta anche dall’altra parte?
Assolutamente sì. Chi vive questa condizione non deve più parlare dalla sua ma della sua disabilità, deve parlarne in chiave costruttiva, inclusiva. Dalla disabilità si può uscire, non solo nel senso culturale del termine. Se io ne esco fuori perché accetto la mia condizione, la supero e quindi la metto a disposizione degli altri, cosa rimane della mia disabilità? Non mi concentro più allora su quello che non posso più fare – e così anche la gente – ma su quello che posso, voglio e devo ancora fare. La persona con disabilità non ha il diritto ma il dovere di fare. E tra diritto e dovere forse oggi c’è ancora un po’ di confusione…
I malati di Sla necessitano di un’assistenza H 24 particolarmente onerosa, sia in termini economici, sia di dispendio psicofisico. Spesso i familiari che devono assistere i propri cari sono costretti addirittura a lasciare il lavoro o a prendere un’aspettativa temporanea. Inoltre i Livelli di assistenza essenziali (Lea) non sono tutti uguali e cambiano a seconda delle regioni causando non pochi disagi a malati e famigliari. Per non parlare poi dell’assegno di cura previsto, decisamente irrisorio rispetto alle spese da sostenere. Il governo ha animo provvedimenti da adottare per dare risposte efficaci?
Non si può in una cosiddetta società civile essere prigionieri dell’amore per i propri familiari. A questa gente dobbiamo assolutamente dare delle risposte, a iniziare da quelle previdenziali. Anche in questo caso, però, parliamo di un problema culturale. Non abbiamo assunto, infatti, la capacità di immedesimarci negli altri. Forse in un concetto cristiano potremmo dire che la croce ti cambia la vita, e nel mio caso è stato così. Se l’accetti voli altrimenti soccombi… Credo dunque che questi cirenei – mi riferisco ai caregiver (badanti) familiari – meritino assolutamente di essere aiutati a trasportare questa croce che nemmeno loro, a volte, riescono a sostenere in maniera efficace. La gente oggi si aspetta uno stato amico e non invece uno stato da cui difendersi… Non posso dire al cittadino semplicemente “vai a votare”. Devo spiegargli il perché deve farlo. E non basta dire che bisogna farlo perché è stato versato del sangue…
Cosa l’ha spinta a scendere in campo?
La voglia di far capire alla gente che si può uscire dalla disaffezione per la politica, per la cosa pubblica. Oggi la politica viene vissuta come un qualcosa di sporco, secondo me invece è l’arte più nobile che possa esistere perché può facilitare la vita delle persone, può rendere possibile ciò che appare impossibile. Per me servire lo stato significa servire la gente e non l’apparato.
Lei, però, non è parlamentare ma un membro tecnico… Lo ritiene uno svantaggio o un vantaggio?
Entrambe le cose. Il vantaggio è di non essere vincolato ai gruppi politici ma solo alle politiche del governo. Lo svantaggio, invece, sta forse nel fatto che il parlamentare può spaziare di più anche rispetto a deleghe non sue perché di base può occuparsi di tutto. Anche se poi deve confrontarsi con il suo gruppo. Io, però, essendo anche sottosegretario alla presidenza del Consiglio posso chiedere di volta in volta al presidente o ad altri ministri di aiutarli o coadiuvarli occupandomi anche indirettamente di deleghe non prettamente mie.