LA GARA DI GENEROSITÀ
Per “non avere la vergogna di morire ricchi”, come disse una volta il super ricco Andrew Carnegie, da alcuni anni emerge nel mondo, specie nordamericano, con una lunga tradizione nel settore, una schiera di filantropi che hanno deciso di devolvere la metà dei loro favolosi capitali in beneficenza. Sono novantadue, per il momento, in una associazione chiamata Givin Pledge; non hanno soltanto promesso ma attivato in concreto una serie di iniziative in soccorso di tutte quelle situazioni sulla terra nelle quali la gente ha bisogno di una mano per sopravvivere.
Da Warren Buffet (in testa alla lista dei miliardari redatta ogni anno dalla rivista economica Forbes) a Bill Gates, fondatore di Microsoft, a Mark Zuckerberg e Dustin Moskovitz, creatori di Facebook, a Georges Soros e John Paulson, manager della finanza: ognuno di loro, e molti altri, gareggiano in generosità per aiutare a risolvere problemi di vario tipo. Bill Gates vuole sradicare la poliomielite dal mondo, stanziando miliardi di dollari: ce la farà, dice, se negli ultimi tre paesi dove il morbo colpisce, Afghanistan, Pakistan e Nigeria, saranno vinte le resistenze di minoranze, disposte a ricorrere alla violenza, contrarie alle vaccinazioni.
Di Buffett è nota, oltretutto, la campagna perché i ricchi siano equamente tassati: non devo pagare meno, dice, della mia segretaria. E poi sostiene iniziative come l’alfabetizzazione dei paesi poveri, la razionalizzazione dell’agricoltura. Progetti cui servono anche i soldi (mezzo miliardo di dollari a testa) di Zuckerberg e Moskovitz. Qualcuno storce un po’ la bocca, notando che si tratta di guadagni non sempre limpidi. Ma è un fatto che, insieme con i finanziamenti delle Nazioni Unite e gli stanziamenti dei governi, sono stati raggiunti alcuni obiettivi che l’Onu si proponeva, con il programma detto del Millennio. Per l’accesso all’acqua, per esempio, per la diminuzione della miseria; anche se sono centinaia di milioni le persone che continuano a vivere con un dollaro e mezzo al giorno.
Si è osservato che la filantropia è aumentata in contemporanea con l’estendersi della crisi che ha colpito gran parte del mondo. Come se fosse automaticamente scattato un meccanismo di solidarietà (i 92 del club dei ricchi che abbiamo citato non sono pochi) ed emergessero i sentimenti migliori. Si attua in qualche modo quel “non uccidete la speranza” lanciato al mondo da papa Francesco, e di cui il mondo ha tanto bisogno.
Accanto a queste certo meritevoli iniziative, non dobbiamo però dimenticare l’ordinaria amministrazione. Cioè quella carità che, in modo meno clamoroso, viene espressa quotidianamente dai cristiani, con centomila missionari cattolici diffusi sino agli estremi confini della terra, assieme ai loro fratelli protestanti. Tutti costoro, a loro volta, vivono sul rapporto e sui contributi che arrivano dalle comunità di appartenenza e che sono l’espressione quotidiana di un modo d’essere. Pensiamo ai numeri: soltanto per l’Italia, oltre mezzo milione di volontari impegnati in ogni specie di servizio; e, nonostante la crisi di partecipazione, lo stesso può dirsi, per tutte le comunità della vecchia Europa e delle Americhe.
Afferma il cardinale Oscar Madariaga, presidente di Caritas Internationalis, che “la carità cattolica non è una semplice filantropia, una sorta di tranquillità per la coscienza. è un’esigenza per la fede”, e sottolinea come il servizio della fede debba passare per quello della carità. Per tutti risuona quel passo del vangelo: “Avevo fame e mi hai dato da bere, avevo sete e mi hai dissetato”. Filantropi o credenti, possiamo parlare una volta tanto di buone notizie per l’umanità.