LA DIVINA CONDISCENDENZA

 

1. L’ammirabile condiscendenza divina

In primo luogo i padri conciliari ci invitano a meditare su quella caratteristica dell’agire divino nella storia che, sulla scia di Giovanni Crisostomo, qui esplicitamente citato, chiamano la divina “accondiscendenza”.

Il termine greco è synkatàbasis, stranamente ignorato nel nuovo testamento ma espressamente e ampiamente utilizzato dal Crisostomo nei suoi commenti e nelle sue omelie. Questo sostantivo e il relativo verbo stanno a indicare l’atteggiamento per il quale Dio è venuto (baino) e si è abbassato (katà) fino a noi per stare con noi (syn).

Ovviamente questo è un debito che il Vaticano II ha voluto contrarre con i padri della chiesa, non certo per una sorta di archeologismo alquanto sospetto, bensì per il ricupero di una riflessione teologica dei primi secoli che ha lasciato il segno in tutti i periodi della storia della chiesa.

 

2. L’ineffabile benignità di Dio

Dopo la divina accondiscendenza i padri conciliari, volendo descrivere il grande mistero della incarnazione del Verbo, parlano di una “ineffabile benignità” con la quale Dio, l’invisibile e irraggiungibile, ha voluto adattarsi al nostro linguaggio e ai nostri costumi.

A questo proposito mi preme dare giusto rilievo a quest’altra espressione, che non va assolutamente sottovalutata. A un certo punto i padri conciliari affermano che Cristo ha contemperato il suo parlare al nostro. E ciò allo scopo che anche noi, poveri mortali, potessimo comprendere qualcosa del suo disegno di salvezza.

“Contemperare” sta a indicare l’opportunità per Dio di scendere al nostro livello, di mettersi al nostro passo adottando il suo al nostro. Ciò non è solo opportuno ma assolutamente necessario perché egli possa entrare in dialogo con noi e perché noi possiamo entrare in contatto con lui.

 

3. Una stupenda analogia

Infine i padri conciliari ci offrono questa stupenda analogia, con la quale ci introducono in una vera, se pur sempre parziale, comprensione del mistero: “Le parole di Dio, infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della natura umana, si fece simile agli uomini”.

Il discorso sull’analogia nel Vaticano II meriterebbe qualche maggiore sviluppo. Mi sia consentito rimandare alla costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium 8, dove si legge: “Per una non debole analogia, quindi, (la chiesa) è paragonabile al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura umana è a servizio del Verbo divino come vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, in modo non dissimile l’organismo sociale della chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo, cha la vivifica per la crescita del corpo”.

Adottare il discorso dell’analogia quando parliamo di Dio significa aver compreso come e fino a quale punto egli abbia voluto contemperare il suo linguaggio al nostro, il suo modus vivendi al nostro.

L'ECO di San Gabriele
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