LA CROCE COME PROGETTO DI VITA
La festa della mamma affonda le sue origini nella La festa della mamma affonda le sue origini nella notte dei tempi. Nella gran parte dei Paesi si festeggia la seconda domenica di maggio. Al di là delle varie date, però, il significato mette d’accordo ogni latitudine e longitudine dello spazio terrestre: si celebra la figura materna per il ruolo fondamentale che ricopre all’interno della famiglia, per l’importanza sociale e per il grande amore che dispensa, senza soste, nei confronti dei figli. La mamma portatrice di vita, di un amore inesauribile, intenso, che ha inizio sin dal concepimento. Un rapporto straordinario che mai niente e nessuno potrà incrinare. Nel vangelo di san Giovanni, ad esempio, ricorre ben quaranta volte il verbo greco agapàn, che vuol dire “amare” e sette volte il sostantivo agàpe che vuol dire “amore”. E l’amore, si sa, è comunemente associato al cuore, un organo importantissimo che garantisce la vita. Quella che la madre porta in grembo e che, una volta affacciatasi al mondo, la ricopre di un amore unico. Un porto sicuro per qualunque tipo di tempesta. A volte la cronaca nera racconta altro, ma sono eccezioni che neanche riescono a scalfire una figura insostituibile.
Giovanni Paolo II ha detto che la donna è caratterizzata da due cose: dall’essere capace di amare più degli uomini e dall’essere capace di soffrire più degli uomini. La storia d’amore che stiamo per raccontarvi, credo rappresenti una testimonianza illuminante.
Laura Chiappa, 47 anni, è originaria di Chiaravalle, in provincia di Ancona. Dal 1998, però, anno del suo matrimonio con Luca Russo, vive nella campagna di Assisi, a pochi chilometri della città di san Francesco. Qui hanno deciso di realizzare il loro progetto di vita, una casa famiglia dove accogliere i bambini più sfortunati. Un sogno condiviso da fidanzati e concretizzatosi dopo il fatidico “sì”. La “chiamata” ricevuta è stata quella di dar vita a una famiglia allargata che avesse come condizione principale la condivisione con le persone più fragili nella pienezza del matrimonio.
“Ci siamo incontrati, conosciuti e innamorati in due case famiglia dell’entroterra riminese – racconta Laura – dove offrivamo il nostro aiuto come volontari. Quindi, successivamente, abbiamo deciso di trasformarlo nel nostro progetto di vita mettendo in piedi la casa famiglia Fuori le mura”.
Entrambi appartengono alla Comunità Papa Giovanni XXIII fondata nel 1968 dall’indimenticabile don Oreste Benzi, il prete dalla tonaca lisa che ha speso la sua vita al servizio degli ultimi. Combattere l’emarginazione e la povertà, dare una famiglia a chi non ce l’ha. Un “miracolo” che ha portato oggi la Comunità ad assicurare ogni giorno cibo a 41 mila persone nel mondo grazie a più di 500 realtà di condivisione tra case famiglia, mense per i poveri, centri di accoglienza, comunità terapeutiche, Capanne di Betlemme per i senzatetto, famiglie aperte e case di preghiera.
Nella casa Fuori le mura, dunque, Laura e Luca hanno aperto le porte ai bambini abbandonati. Nella gran parte dei casi “rifiutati” dai genitori perché affetti da gravi patologie e disabilità.
“Io e mio marito abbiamo due figlie naturali, Teresa di 21 anni e Benedetta di 22 anni. La prima vive con noi, l’altra invece studia a Roma. Poi abbiamo due gemelli, Paolo e Giovanni, originari della Tanzania. Hanno 21 anni, sono sani e belli, li abbiamo adottati da piccolini. Uno lavora come cameriere in un albergo-ristorante, l’altro in una cooperativa agricola, entrambi con un contratto regolare. C’è poi una ragazza di 24 anni (Laura e Luca hanno chiesto di non mettere il nome, ndr), nata con dei limiti mentali abbastanza importanti. È con noi da quando ha aperto gli occhi al mondo. La madre, anche lei vittima di grandi problemi psichiatrici, dopo il parto ha deciso di abbandonarla in ospedale”.
Ma la famiglia non finisce qui. Laura e Luca, infatti, hanno cercato di compensare l’amore perduto di altre ragazze e ragazzi, come fossero figli naturali. Così oltre ai genitori di Luca, il papà Peppino di quasi 90 anni e la madre Linuccia di 82, in casa ci sono anche altri due adulti. “Federico – spiega ancora Laura – ha 47 anni, è un non vedente e sta con noi dal 1999. L’altro è Azeglio, ha 45 anni ed è costretto a vivere su una carrozzina dopo un incidente stradale di cui è rimasto vittima a 16 anni. Entrambi sono stati abbandonati in ospedale dalle rispettive famiglie. Federico lavora come centralinista in un’azienda mentre Azeglio frequenta un Centro Diurno a Bastia Umbra. Entrambi sono le colonne della nostra casa famiglia. E che dire di Agnese, il nostro angelo? È una bambina di 9 anni, cerebrolesa, è affetta da una microcefalia molto complessa. Ha un’epilessia farmaco resistente, non vede, non parla, è in carrozzina e si alimenta con dei sondini che raggiungono lo stomaco e l’intestino… Abbiano anche un figlio più piccolo, abbandonato a Parma, di cui preferisco non fare il nome. Ha 4 anni ed è affetto da cardiopatia grave e da una sindrome genetica rara. Sia lui che Agnese vengono seguiti dall’ospedale Bambino Gesù di Roma. Nonostante le gravi patologie, però, ogni giorno ci stupiscono, per i medici rappresentano un miracolo vivente”. Altri due figli adottati, invece, sono volati in cielo, ma occupano un posto speciale nel cuore di Laura e Luca.
Con una famiglia così allargata (sette figli adottati e due naturali) e soprattutto con le varie problematiche da affrontare, viene naturale domandarsi come sia possibile organizzare e vivere le giornate senza restare vittima dello stress… Proprio nella diversità, però, si scopre l’altro. Poi, ci pensa, l’amore infinito di Dio.
“La nostra giornata – sottolinea Laura – è quella di una famiglia normale, con i vari impegni. Io faccio la moglie e la mamma a tempo pieno. Mi sveglio ogni mattina molto presto, accompagno Federico alla fermata dell’autobus. Lui è molto autonomo e grazie anche all’aiuto degli autisti riesce a muoversi senza problemi particolari. La sera, poi, terminato il lavoro di centralinista, non essendoci l’autobus andiamo a riprenderlo. Insieme all’altro figlio adulto, Azeglio, preparo colazione, vestiti e medicine. Mio marito si occupa dell’igiene personale dei maschi, io delle femminucce. Il bimbo piccolo di 4 anni lo porto alla scuola materna. Azeglio e l’altra figlia 24enne, invece, nel Centro diurno seguono diverse attività fino alle 14.15. Il laboratorio artigianale, il teatro, la cucina. Inoltre fanno fisioterapia e partecipano a un progetto di ginnastica posturale e di musicoterapia. Insomma, hanno una settimana con tanti impegni. Mio marito è il coordinatore del Centro diurno, quindi li accompagna lui. Agnese, invece, la bimba di nove anni, è seguita a casa da una maestra. Frequenta la quarta elementare ma a causa della gravità della sua patologia usufruisce della scuola domiciliare. Uscendo di casa, infatti, potrebbe andare incontro a un peggioramento della sua condizione fisica. Per il momento, dunque, abbiamo adottato questa soluzione per permetterle di avere un’istruzione”.
Nel pomeriggio, poi, terminate le attività, si torna a casa. È il tempo di riposarsi un po’. Anche mamma Laura rallenta leggermente il ritmo, a differenza della mattina quando, dopo aver accompagnato la piccola alla materna, si dedica alle faccende di casa. Verso le cinque, poi, spazio ad alcune attività libere; ad esempio si gioca a carte, si ascolta la musica, eccetera. Il momento in cui però tutta la famiglia si riunisce è alle 8 di sera, quando si cena. “Ci ritroviamo tutti seduti attorno a un tavolo. Ognuno – spiega Laura – racconta la propria giornata. Naturalmente è con noi pure Agnese, anche se non può mangiare il nostro cibo. Anche il piccolino non riesce ancora a nutrirsi autonomamente, si alimenta pure lui con i sondini. Proprio in questo periodo, però, sta iniziando a mangiare un po’ di cibo attraverso la bocca. Per quanto riguarda invece la psicomotricità e la logopedia, lo accompagniamo in un istituto privato. Essendo rimasto attaccato ai macchinari per tanto tempo, al momento deve ancora sviluppare il linguaggio. Lui però si fa capire molto con i gesti e attraverso la comunicazione aumentativa alternativa (un insieme di strategie, strumenti e tecniche messe in atto in ambito clinico e domestico per garantire la comunicazione alle persone che non possono esprimersi verbalmente, ndr). In pratica abbiamo un quadernone con dentro delle immagini e quindi per concetti si fa capire. È molto bravo. Per le cure specifiche, poi, come dicevo in precedenza, siamo seguiti dai medici dell’ospedale Bambino Gesù. Abbiamo dei controlli programmati, ormai ci conoscono bene e spesso comunichiamo al telefono o via posta elettronica. Sono sempre molto disponibili e affettuosi. Non ci sentiamo mai soli”.
A proposito di solitudine, spesso ci sono periodi dove Laura e Luca si ritrovano soli ad affrontare le giornate. In quel caso la cura della persona viene prima di tutto, poi si pensa alla casa… Ma qual è la cosa che più ripaga Laura delle tante fatiche? “Sicuramente non avrei potuto fare nulla senza la grazia del sacramento del matrimonio. Parlo sia di forze fisiche che psicologiche. La mia grande gioia, poi, è vederli felici, appagati. Ognuno si alza con la voglia di affrontare la giornata. Vivere ciò che la vita mette loro davanti. Nonostante le gravi disabilità o le assurde storie di abbandono, anche per loro ogni istante della vita è bello e merita di essere vissuto fino in fondo”.
Sicuramente a Laura sarà capitato di dover misurare i propri limiti dinanzi a tanta sofferenza, però più che il coraggio a risolvere tutto è stato il grande amore messo in campo. “L’insegnamento di don Oreste Benzi – ci svela – mi è sempre di grande aiuto. La paura che si ha a stare vicini a questi piccoli afflitti da varie patologie e storie di abbandono, ci ripeteva sempre, non si supera con uno sforzo sovrumano o cercando di aumentare le dosi di coraggio, bensì con un amore ancora più grande. E io ho sempre cercato di abbandonarmi a un amore più grande di quello che potessi dare, cioè a quello di Dio. Un amore che mi consente di gestire e superare tutte le mie fragilità. Dio mi ha consentito di dire sì a una vita che certamente comporta sacrifici e rinunce, ma che riempie il cuore come nessun’altra cosa. Ho accettato di farmi carico del dolore di altre persone, ho fatto sì che diventasse la mia croce. Certamente ci sono giorni in cui vengo assalita da dubbi, momenti bui, ma nello spazio di poco tempo ritrovo subito la fiducia. Anche perché penso al senso di giustizia da colmare. Non posso accettare, infatti, che delle creature così piccole e indifese debbano portare da sole una croce così pesante… Nel mio piccolo, dunque, ho pensato di mettere la mia spalla sotto la loro croce e aiutarli nel percorso. Il peso si sente, e anche lo smarrimento, ma l’amore è più grande”.
Prima di salutarci, chiedo a Laura se conosceva L’Eco e soprattutto il nostro “editore” nonché patrono della Gioventù cattolica italiana, san Gabriele dell’Addolorata. “Certamente – risponde senza neanche farmi finire la domanda – conosco tutti molto bene, soprattutto san Gabriele dell’Addolorata. Ho partecipato a diverse Tendopoli, mi sono rimasti nel cuore sia il santo, sia i padri passionisti. Ho vissuto esperienze uniche che ricordo con grande piacere. E anche con nostalgia”.