LA CRISI, VISCO E LETTA

By Nicola Guiso
Pubblicato il 2 Luglio 2013

Nella relazione annuale dello scorso 31 maggio il governatore della Banca d’Italia Visco ha ricordato che all’origine della crisi economica e sociale in atto in Italia vi sono cause europee e mondiali. Ma soprattutto il fatto che negli ultimi 25 anni il paese non ha adeguato le strutture produttive, sociali, dell’istruzione e della formazione professionale alle radicali innovazioni imposte dalla telematica, dalle bio-tecnologie e dalla rete. Il 1° giugno il presidente del Consiglio Letta ha ricordato due significative situazioni, causa ed effetto di quella incapacità dimostrata dall’Italia: l’inflazione delle sedi universitarie, create senza criteri razionali; l’inflazione di piccoli aeroporti, il cui movimento mai riuscirà a coprire i costi degli impianti e del personale. Faccio due esempi su situazioni del genere.

Il primo: la provincia sarda di Nuoro ha poco più di 160.000 abitanti; un reddito pro-capite lontano dalla media nazionale; una economia fondata sull’allevamento del bestiame, il turismo e l’estrazione di marmi; il tribunale del capoluogo (meno di 40.000 abitanti) conta circa 400 avvocati e 50 praticanti. In questa situazione è stata aperta a Nuoro qualche anno fa una sezione della facoltà di giurisprudenza di Sassari.

Secondo esempio: un mese fa è stato inaugurato in Puglia un nuovo aeroporto in assenza di una sola tratta fissa passeggeri o merci.

Non mi sembrano necessari commenti. Giusti dunque i tanti dibattiti su come superare la crisi, e in particolare quella dell’occupazione. In materia, esperti, sindacalisti e politici dicono cose realistiche e coraggiose, ma anche demagogiche e irreali. Evidentemente riferendosi a queste, il governatore Visco avverte che è “illusorio pensare di uscire dalla crisi con la leva del deficit pubblico”. In concreto, mette in guardia da proposte del genere “salario sociale” per i disoccupati e per i giovani senza lavoro; oppure di “reddito minimo garantito per tutti”; o di settimana lavorativa di 35 ore a parità di retribuzioni. Proposte che quando attuate (in tutto o in parte) hanno imbalsamato o messo in crisi economie e strutture sociali già forti come quelle francesi. E Visco intende invece suggerire – per esempio – un adeguato sostegno pubblico temporaneo ma “con nuova formazione” a chi debba transitare da un lavoro all’altro; e qualificazione tecnica,  formazione professionale e apprendistato per i giovani, al fine di poter meglio corrispondere alle esigenze nuove della società e delle strutture produttive.

Quanto alle imprese, Visco fa esplicito riferimento a un alleggerimento del carico fiscale. Ma per favorire in quelle che hanno resistito alla crisi investimenti tecnologici e ricerca; e soprattutto per spingere alla creazione di nuove imprese. Il passato insegna, infatti, che in una ripresa stentata (come quella, purtroppo, prevista) le imprese sopravvissute alla crisi hanno imparato a fare le stesse cose, o più cose, di prima, con meno personale. E dunque il calo della disoccupazione può avvenire in tempi più rapidi solo con la nascita di nuove imprese; in particolare nei settori tecnologicamente avanzati e legati all’esportazione: l’Abruzzo ha consapevolezza del valore di questo indirizzo. È un obiettivo raggiungibile con trattamenti fiscali stimolanti; con meno burocrazia e meno tempi per le autorizzazioni; con contratti di lavoro più flessibili o di solidarietà, legati alle caratteristiche dei diversi comparti produttivi ma anche alle situazioni delle singole imprese. Il perdurare di trattamenti fiscali per nuove imprese lontanissimi da quelli di altri paesi europei; di controlli burocratici asfissianti e di una tutela “passiva” della disoccupazione anche da parte dei sindacati, non creano nuovo lavoro stabile e alimentano il lavoro nero. Anche proposte come la “staffetta” tra lavoratori anziani (che ridurrebbero le ore di lavoro, con lo stato che pagherebbe però i contributi Inps per la pensione) al fine di lasciare spazio in azienda a giovani, costituiscono, di fatto, una rinuncia a cambiare i modi di produzione. Non incrementano i posti di lavoro e quindi prolungano la stagnazione economica e soprattutto quella sociale.

Sono cose che una classe dirigente responsabile deve dire con franchezza e con coraggio.

 

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