LA CAROVANA NEI BALCANI

Sulle tracce delle rotte migratorie e della resistenza delle donne
By redazione Eco
Pubblicato il 4 Giugno 2022

di Barbara Micheloni e Vesna Scepanovic

Da Tirana a Trieste. Un gruppo di attivisti italiani e spagnoli ha intrapreso un viaggio conoscitivo toccando luoghi significativi per la recente storia europea, alla ricerca di piccole storie, memorie di resistenza da conoscere e raccontare. A organizzarlo Carovane Migranti, gruppo torinese impegnato nella tutela dei diritti dei migranti e nella promozione di pratiche di dialogo e scambio tra attivisti di vari paesi.

La carovana nei Balcani nasce da una duplice esigenza: percorrere le tappe più importanti delle rotte migratorie attuali, incontrare alcune delle realtà solidali che supportano le persone in movimento e conoscere associazioni di donne che, in contesti geografici e sociali differenti, lavorano per denunciare, prevenire e curare la violenza di genere. Il filo rosso che li lega è il tema della memoria, intesa come ricordo vivo di eventi del passato ma anche come processo di “fare memoria” con la raccolta di testimonianze che altrimenti non avrebbero visibilità. Nel fare questo abbiamo scelto di privilegiare lo sguardo e le esperienze delle donne.

La prima tappa ha riguardato l’Albania, con incontri focalizzati sulla condizione femminile. A Tirana la Gender Alliance for Development Center, Ong che si occupa di questioni di genere, ci ha fornito un quadro sulla condizione femminile nel paese e presentato una ricerca sulle condizioni delle lavoratrici delle zone rurali impiegate, senza alcun diritto sindacale, nelle imprese tessili italiane che riforniscono i maggiori brand dell’alta moda. A Scutari, nel nord dell’Albania, abbiamo visitato l’associazione Passi Leggeri, che opera come centro antiviolenza fornendo alle vittime di violenza domestica supporto psicologico, legale, formazione professionale e accompagnamento all’inserimento lavorativo mediante una rete capillare attiva nelle vicine zone di montagna.

A Podgorica, capitale del Montene-gro, abbiamo ascoltato la testimonianza del caporedattore del settimanale indipendente Monitor Esad Kocan che ci ha parlato delle difficoltà che affronta una testata storica di opposizione schierata contro la guerra negli anni 90 e che continua a denunciare corruzione, connivenze e il nazionalismo di nuovo in ascesa. A Pljevlja, vicino alla frontiera con la Bosnia, siamo stati ospiti dell’associazione Bona Fide e della sua fondatrice Sabi-na Talovic che si è poi unita alla carovana.

Sabina, musulmana in una città a prevalenza ortodossa e a forte presenza ultranazionalista, è stata attivista contro la guerra negli anni 90, femminista delle Donne in nero (movimento pacifista internazionale) e da qualche anno accoglie e aiuta i migranti in cammino. Dal 2017 più di 12000 persone sono transitate dalla sua associazione e ha, pagato, con minacce continue e un’aggressione fisica, il suo impegno sociale.

Varcato il confine bosniaco abbiamo incontrato a Gorazde e a Sarajevo, due città segnate entrambe da un lungo assedio durante il conflitto degli anni 90, alcune associazioni femministe che si occupano delle conseguenze della guerra sulle vite delle donne. A Gorazde l’Ong Seka (sorella, in bosniaco), creata dalla psicologa tedesca Gabriella Miller, dedita alla cura dei traumi di guerra, che si protraggono per anni, trasmettendosi anche alle generazioni successive. Il gruppo Seka garantisce servizi gratuiti a bambini e donne vittime di violenze di guerra e domestiche, lavorando sul dialogo e il supporto reciproco, comprendendo nel processo terapeutico non solo le vittime ma anche gli autori di queste violenze.

A Sarajevo abbiamo incontrato la Fondazione Cure (ragazze, in bosniaco) che lavora sulla parità di genere con progetti di ricerca, educativi ed artistici. Con la finalità di scrivere la pagina femminile della guerra e di mettere in luce le esperienze di reti di supporto e pacifiste nate all’inizio del conflitto, al momento le attiviste di Cure lavorano alla raccolta di storie di vita delle donne di diversi cantoni della Bosnia Erzegovina dopo gli accordi di pace di Dayton (1995). Abbiamo colto l’occasione di intervistare anche Ajna Jusic dell’associazione Bambini dimenticati dalla guerra che riunisce i ragazzi e le ragazze nati dagli stupri avvenuti durante il conflitto e che hanno subito, insieme alle loro madri, stigma e discriminazione perché considerati i figli del nemico. Per elaborare il trauma e uscire dalla trappola del perenne ruolo delle vittime l’associazione utilizza l’arte, in particolare il teatro, strumento per curare se stessi e la società con il dialogo e la bellezza. Sempre a Sarajevo, poi, abbiamo visitato la sede dell’associazione Compass 071, fondata da un gruppo di studenti al fine di supportare i migranti con uno spazio di accoglienza e di distribuzione di beni di prima necessità.

A Trieste, il nostro punto d’approdo, si sono incontrate due attiviste che, una agli inizi e l’altra alla fine della rotta balcanica, sono un punto di riferimento per i migranti in transito. Lorena Fornasir di Linea d’Ombra, che con il suo carrettino verde in Piazza della Libertà cura i piedi delle persone che arrivano stremate dal game (il tentativo di passare le frontiere nei Balcani) e Sabina Talovic di Bona Fide, instancabile animatrice del supporto ai migranti a Pljevlja.

Nel nostro viaggio abbiamo percorso paesi dove sono ancora evidenti le cicatrici che ha lasciato una guerra nazionalista e dove già si agitano nuove pericolose tensioni politiche e sociali. Proprio la guerra nelle sue varie forme ci ha accompagnato nel nostro cammino: la memoria della seconda guerra mondiale e di quella degli anni 90 soprattutto in Bosnia e poi la guerra a bassa intensità fatta sulla pelle dei migranti, i codici di condotta tradizionali e patriarcali che sfociano in violenza domestica e il sistema economico predatorio che erode i diritti dei più fragili. Ma a fare da contraltare a questa violenza sistemica portiamo con noi la testimonianza delle numerose forme di resistenza rigenerativa e di cura alla disumanità: i lavori artigianali e le delizie culinarie delle donne di Scutari di Passi Leggeri e quelli di Pljevlja di Bona Fide, la scrittura delle memorie della Fondazione Cure a Sarajevo e di Seka a Gorazde, gli spettacoli e i laboratori di teatro di Ajna Jusic, la solidarietà concreta dei giovani di Compass 071.

Inevitabilmente, poi, è sempre stato presente in sottofondo l’eco del conflitto in Ucraina. Come in un tragico gioco di specchi la storia sembra ripetersi: un altro paese slavo, un’altra guerra fratricida, altri nazionalismi bellicosi e giochi geopolitici, vittime e profughi che porteranno su di sé i traumi di questi giorni perché, come abbiamo toccato con mano in questo viaggio, le guerre non finiscono quando cessano i combattimenti ma lasciano conseguenze indelebili con cui fare i conti per lunghi anni a venire.

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