Provate a immaginare cosa sarà l’Italia fra 70 anni. Il presidente del Consiglio potrebbe venire dalla Nigeria, il ministro del Tesoro dal Kerala (gli indiani sono dei geni in matematica) e quello della Sanità dallo Sri Lanka. Non sono idee fantascientifiche ma semplicemente una realtà che si materializza sotto i nostri occhi ogni giorno di più. In altri Paesi la scalata del potere è già avvenuta. In Inghilterra e negli Stati Uniti abbiamo già una classe dirigente di colore. In Gran Bretagna il sindaco di Londra e quello di Luton sono pachistani. Gli Stati Uniti hanno avuto per presidente e per segretario di stato due afroamericani, Barack Obama e Condoleeza Rice, e un giamaicano come Colin Powell è arrivato alla più alta carica militare. Se si guarda all’infanzia di questi puledri di razza, si trovano nelle loro vite difficoltà, pochi soldi in famiglia, un ambiente ostile. Vincere per uno non-bianco ha richiesto un doppio di intelligenza, di perseveranza, di resistenza. Quasi tutti si son dovuti far strada in una boscaglia di pregiudizi, sgomitando per vincere tra sospetti e gelosie. Conosco in Italia alcuni ragazzi figli di immigrati che si sono affermati in varie discipline e che si sono laureati con centodieci e lode. Ho per essi una grande ammirazione. Non è facile studiare in piccolissimi e ultramodesti appartamenti di periferia, nei retrobottega, su un tavolo diviso fra cucina, lavoro, studio, in spazi ristretti, disturbati da chiacchiere, voci, musiche, grida. Eppure tanti sono stati spronati proprio dalla povertà che li ha spinti ad andare avanti. Per solo merito.
Mentre tanti ragazzi nostrani si accontentano di una magra sufficienza all’università, negli Stati Uniti, proprio fra gli immigrati, c’è un processo inverso. Le famiglie sognano per i loro figli studi severi, pensano che solo il merito li farà uscire dai sobborghi di New York o di Los Angeles, chiedono professori capaci e non indulgenti che boccino i pigri e i fannulloni. Sono state soprattutto le madri degli studenti cinesi di San Francisco che si sono ferocemente opposte alle facili graduatorie, alla laurea regalata, alle promozioni senza grinta e che hanno criticato i metodi di certa sinistra americana che ormai predica nelle scuole statali solo le colpe dei primi colonizzatori bianchi, le macchie del sistema e del razzismo. Il risultato è stato che migliaia di famiglie asiatiche – che hanno inculcato nei loro figli la priorità dello studio e l’etica della disciplina – hanno abbandonato le scuole pubbliche. In due anni un milione e mezzo di studenti hanno traslocato verso il privato.
Anche in Italia ci sono stati esempi di successo dalla povertà e dalla solitudine. Angelo Rizzoli, grande editore e Leonardo Del Vecchio grande industriale, sono cresciuti in un orfanotrofio.
Fra tanto benessere, invece, molti dei nostri ragazzi hanno perso slancio, non sentono più la voglia di emergere, si sono impigriti, alcuni mantenuti dalle pensioni dei padri o delle madri, senza voglia di lottare, in cerca di un posto statale, di una scorciatoia politica che li aiuti ad andare avanti. Si confida nella raccomandazione, nel partito, negli amici influenti mentre anche la classe politica ha cancellato la parola “meritocrazia”. Fra due generazioni gli immigrati saranno loro i protagonisti. Abbia-mo ammainato le bandiere del sacrificio per innalzare solo quella dei diritti.
È la lezione della storia. I barbari cominciarono a penetrare nell’impero romano quando cominciò a svanire la voglia di combattere.
Come diceva un grande scrittore norvegese, Knut Hamsun, “Chi ha fame arriva prima”.