Non vogliamo alimentare il capogiro provocato a tanti dalle decisioni (poche) e dai propositi (tanti e perlopiù vaghi) comunicati dal presidente del Consiglio al paese il 12 marzo, e dalle inevitabili, aspre, polemiche che sono seguite e durano ancora. Le questioni da lui poste sono sintetizzabili in due domande, che impongono risposte chiare perché toccano gli interessi generali del paese, presenti e futuri.
La prima è: come reperire le risorse (10 miliardi di euro l’anno) per ridurre da maggio le ritenute fiscali dalle buste paga di 10 milioni di lavoratori con meno di 1500 euro netti al mese, consentendo loro un guadagno netto al mese di circa 80 euro; le risorse per ridurre del 10% l’Irap (imposta assurda, perché una impresa con più dipendenti ha più paga per ciascuno di essi); le risorse per liquidare alle imprese 60 miliardi di euro per forniture a regioni e stato non pagate; quelle per finanziare (almeno altri 10 miliardi) programmi per l’edilizia scolastica, l’edilizia sociale, iniziative imprenditoriali e di ricerca di giovani disoccupati, ed estendere l’indennità di disoccupazione a tutti i precari?
La seconda domanda è: ammesso che tali risorse siano in qualche modo reperibili, è possibile utilizzarle senza infrangere i vincoli di spesa che sono imposti non solo e non tanto dai regolamenti europei quanto dal nostro enorme debito pubblico (che ci costa quasi 300 miliardi di interessi l’anno)? Sono interrogativi dai quali ne derivano altri di pari portata. Per esempio: la lotta alla disoccupazione sarà più efficace con l’aumento in busta paga deciso dal governo al fine di aumentare i consumi, che dovrebbe spingere le imprese a nuove assunzioni. Oppure tagliando alle imprese molto più del 10% di Irap, riducendo in questo modo il costo del lavoro, e dunque spingendole ad assumere e a qualificare il personale al fine di essere più competitive nel mercato interno e in quello internazionale?
Le risposte potranno venire solo dai fatti, e non da argomenti e discorsi, per quanto immaginifici possano essere. Chiaro sulla riduzione delle ritenute fiscali (e sull’apprezzabile snellimento delle norme relative alle assunzioni a tempo determinato), Renzi lo è stato anche quando ha detto che si ritirerà dalla politica se non riuscisse ad abolire il Senato così com’è. Cioè la copia della Camera (con conseguente raddoppio dei costi), ma soprattutto fatto intollerabile in quanto provoca tempi interminabili per l’approvazione delle leggi in un mondo che impone decisioni di governo sempre più rapide. È dunque una affermazione chiara, ma abile allo stesso tempo. Renzi infatti afferma stentoreo di voler liquidare il Senato così com’è. Ma si limita a vaghissimi cenni (che avrebbe comunicato ai leader politici per avere da loro giudizi e suggerimenti) su questioni essenziali in materia, quali, per esempio: chi farebbe parte del nuovo Senato? Sarebbe un eletto o un nominato, e da chi? Quali funzioni e poteri eserciterebbe il nuovo Senato? L’intelligenza maliziosa della proposta è data dal fatto che essa tocca un nodo vitale della crisi politico-istituzionale che scuote l’Italia. E diventa punta acuminata della strategia politica e di governo di Renzi perché egli sa che essendo una riforma istituzionale per essere approvata richiederà non meno di un anno dal momento che il parlamento inizierà a esaminarla. Quindi rafforza “l’orizzonte 2018” che ha dato al suo governo. Ma nello stesso tempo le grandi difficoltà che sicuramente la proposta incontrerà (in particolare al Senato), in qualsiasi momento potrebbero essere usate da Renzi per mettere fine alla sua esperienza di governo su una questione di alto profilo politico-istituzionale, usata però come maschera al possibile fallimento di punti essenziali del suo programma sociale, economico e finanziario. Comunque, come si dice, chi vivrà vedrà.