IN CRISI LA POLITICA ESTERA DELLA POTENZA AMERICANA

By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 1 Dicembre 2013

Il 2013 ha rappresentato una sorta di annus horribilis caratterizzato in particolare dall’incerta figura fatta nella vicenda siriana e dalla perdita di influenza in Medioriente, dal mancato successo in Afghanistan e dal sanguinoso lascito in un Iraq dilaniato da guerre di religione, dalle tensioni diplomatiche con tradizionali alleati e paesi vicini a causa di illegittime intrusioni spionistiche

Riusciranno gli Stati Uniti a superare le conseguenze, negative per il loro prestigio, di un “anno terribile” come il 2013? Ricordiamo che è stato caratterizzato dall’incerta figura fatta nella vicenda siriana e dalla perdita di influenza in Medioriente (compreso Israele), dal mancato successo in Afghanistan e dal sanguinoso lascito in un Iraq dilaniato da guerre di religione, dalle tensioni diplomatiche con tradizionali alleati e paesi vicini a causa di illegittime intrusioni spionistiche.

Questo bilancio si aggiunge alla “scomposta battaglia politica”, come è stata definita da un autorevole economista americano, condotta dai repubblicani – in odio alla riforma sanitaria voluta dal presidente Barack Obama – attraverso il rifiuto di approvare un aumento delle spese di bilancio e che ha portato allo “shutdown”, cioè alla parziale interruzione della spesa pubblica. Le conseguenze del braccio di ferro, durato alcune settimane, sono state negative per l’economia (il danno si calcola in alcune decine di miliardi di dollari), per i licenziamenti a tempo di impiegati statali, per la diminuita fiducia internazionale sulla capacità di Washington di pagare i propri debiti.

Alla fine Obama ha piegato gli avversari ma il successo del presidente è stato soltanto interno, perché su altri piani si è trattato di un vero e proprio disastro. Simbolizzato per alcuni giorni dalla chiusura ai visitatori della statua della Libertà di New York, insieme con altre quattrocento strutture fra musei, parchi nazionali e riserve naturali, a causa della messa in congedo di impiegati statali “non essenziali”, dalle 650mila alle 800mila persone (fra esse quattro premi nobel), alle quali comunque sarà assicurato il pagamento degli stipendi. Con la prospettiva, se non si fosse arrivati al compromesso parlamentare al quale si è giunti, di decretare addirittura il “fallimento” degli Stati Uniti, con ripercussioni mondiali che non è tanto facile immaginare e che fanno venire i brividi ad alcuni economisti.

I repubblicani, che controllano la camera dei deputati (mentre i democratici sono maggioranza al senato), avrebbero preteso di barattare l’approvazione di un aumento del debito pubblico, attualmente di 16.700 miliardi di dollari, contro l’abolizione della riforma sanitaria che Obama era riuscito a mandare in porto durante il suo primo quadriennio. Una schiera di “falchi”, finanziata dai fratelli miliardari Charles e David Kock, ha messo in atto tutte le misure possibili per ottenere, in nome del più gretto individualismo, la revoca dei provvedimenti di assistenza medica, peraltro approvati dalla Corte Costituzionale, e definiti da un esperto americano “un modesto miglioramento del peggior sistema sanitario di tutti i paesi ad alto reddito”.

Altri osservatori, commentando la campagna degli avversari della riforma, parlano con preoccupazione di una sorta di lotta di classe messa in atto da parte dello 0,1 per cento della popolazione ricca contro milioni di famiglie a basso reddito, da lasciare al proprio destino di miseria (e la chiesa si è espressa severamente in proposito). La resa finale, comunque, si spiega anche con un severo calo dei repubblicani nei sondaggi (nel 2014 ci saranno le elezioni cosiddette “di medio termine”), arrivati al 23 per cento, e con il 70 per cento dell’opinione pubblica che attribuisce loro la responsabilità della crisi.

Una crisi che si riverbera all’esterno, perché una vicenda del genere fa vacillare la fiducia nel dollaro – moneta di riferimento per i tre quarti degli scambi internazionali – e induce alcuni paesi a diversificare le loro riserve investendo in euro (dallo scorso maggio 20 miliardi di dollari sono affluiti in Europa) e addirittura nello yuan cinese. Charles Morrison, un esperto di problemi economici asiatici, riferendosi alla recenti vicende ha detto che “si pone il problema di sapere se il sistema politico americano funziona veramente bene e se gli Usa sono capaci di mantenere una posizione di leadership”.

In effetti durante la concitata trattativa per risolvere lo “shutdown” Obama ha dovuto rinunciare a una serie di importanti presenze in Asia: il Consiglio di cooperazione economica Asia Pacifico a Bali, il Forum dell’Asia Orientale a Brunei, le visite ufficiali in Malesia e Filippine e quella non protocollare in Indonesia. Con ciò ha lasciato ampio spazio da protagonista al presidente cinese Xi Jinping, che ha potuto, fra l’altro, riannodare i fili di un colloquio per superare i contrasti con alcuni paesi dell’area.

Bisogna tener conto del fatto che Washington ha indirizzato negli ultimi tempi la maggior parte della sua diplomazia verso il Pacifico, la grande autostrada del futuro, attraverso la quale passeranno i tre quarti dei traffici internazionali. Lì la Cina è la principale antagonista, sia per lo sviluppo della sua economia (quest’anno il prodotto interno lordo è cresciuto “soltanto” di un 7,8 per cento), sia ancora per la volontà di Pechino di controllare le nazioni vicine e di preparare a lungo termine un avvenire di moneta di riserva allo yuan, che alcuni paesi emergenti cominciano appunto a utilizzare.

Certo anche Pechino negli ultimi tempi ha tifato affinché si normalizzasse la situazione americana, in quanto il sessanta per cento delle sue colossali riserve monetarie (3300 miliardi di dollari) sono investite in azioni americane, ma anche perché è consapevole che un default degli Stati Uniti, come ha detto il miliardario americano Warren Buffet, e Obama ha ripetuto, “sarebbe una bomba nucleare”. E ha respirato l’Europa, consapevole che sarebbe stata la prima a pagare – come è altre volte avvenuto – le ricadute di una crisi americana che, per il momento, è stata scongiurata.

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