Il giovane sacerdote della parrocchia Conversione di san Paolo, situata nella zona est di Brescia, città martoriata dal Coronavirus, parla e opera per un Rinascimento della fede. Iniziative e coinvolgimento dei giovani per tenere in vita il tema della speranza in un momento così difficile
Credo che non ci siamo mai amati come in questo periodo… Meno strette di mano e pacche sulle spalle ma più parole dense di significato e vicinanze di cuori…». Don Marco Mori, 47 anni, è come il mare, in perenne movimento… Non perde un attimo per rendere viva e feconda la sua comunità e quindi la Chiesa. Dopo un lungo e apprezzato periodo come direttore nazionale dell’Ufficio per gli oratori e i giovani, ha scelto di “sporcarsi le mani” come parroco nella periferia di Brescia, seguendo la strada tanto cara a papa Francesco e don Milani. La sua parrocchia Conversione di San Paolo, che conta circa 4.500 anime, guarda Alfa Acciai, la più grande l’acciaieria della città. La zona ospita anche l’unico forno crematorio di Brescia e alcune tra le più grandi case funerarie della città. Come dire, qui il tema della morte, soprattutto in questo tempo contrassegnato dal Coronavirus, aleggia in maniera ingombrante… In questi luoghi, infatti, c’è ancora tanta paura per un nemico invisibile che ha seminato e continua a seminare morte e sofferenza. Ma la quotidianità, inevitabilmente, prova a fatica a riaffacciarsi nell’angosciante suono delle sirene delle ambulanze che continuano a incrociare la città…
Durante il periodo pasquale don Marco si è reso protagonista di una Via Crucis in solitaria lungo le strade del quartiere, fermandosi per la benedizione anche nel cortile d’ingresso dell’acciaieria. Lo scorso 4 maggio, poi, è stato il primo a celebrare il funerale in chiesa dopo due mesi di sepolture effettuate senza rito funebre… “Qui – ci racconta mentre il suono di un’ambulanza fa da triste sottofondo alle sue parole – non c’è proprio nessuno che non abbia avvertito la sensazione di essere sfiorato dalla morte… Tanti nostri modi ‘tradizionali’ di credere sono stati messi alla prova da un’esperienza umana che ci ha toccati nel profondo. Io stesso, per la prima volta nella vita, ho avvertito la vicinanza della morte… L’ho confessato anche ai miei genitori dicendo: Non so se ci rivedremo…”.
Arrendersi, però, è una parola che nel vocabolario di don Marco non compare… “Davanti a noi avevamo due possibilità: dare carta bianca alla morte e aspettare quindi le sue scelte, oppure mettere in campo le migliori risorse umane e spirituali che abbiamo, e che sono tante, costruendo insieme qualcosa di bello. E da questo punto di vista – prosegue – stiamo rivivendo un nuovo Rinascimento della fede. Cioè si capisce che credere non è una cosa da bigotti, da ‘tradizionalisti’ ma una cosa che rende più plausibile, più bella e più vera la nostra umanità”.
Gli effetti di questa emergenza, infatti, hanno dato vita a un piacevole paradosso. Nonostante la distanza fisica e il doversi arrangiare da soli, di fatto abbiamo vissuto l’uno per l’altro…“Credo che mai come questa volta – conferma don Marco – si sia sperimentata l’esperienza piena dell’essere comunità, quella dove l’uno è con l’altro e non contro l’altro. Questa consapevolezza, dunque, non possiamo buttarla, rovinarla, disperderla ma farla invece nostra proprio nel momento in cui ci sarà la ‘guerra’… Quando cioè si rischierà di essere nuovamente uno contro l’altro a causa di una crisi economica che lascerà tante persone senza lavoro, più sole e senza prospettive di speranza…”.
A proposito di speranza, come dicevamo don Marco nel periodo di lunga quarantena, e non solo, ha cercato di tenerla viva in tutti i modi. Ad esempio attraverso il “barattolo d’oro”, un grande quaderno posto in fondo alla chiesa dove ognuno può esprimere pensieri, sentimenti, riflessioni, paure e anche sulle personali necessità. Un’idea semplice ma straordinariamente vincente. “Ho insistito affinché la gente lo facesse – spiega – perché alcuni pensieri spirituali e umani di questo momento sono certamente unici. Tanta gente ha avuto voglia di seguire il mio invito come occasione per non rimanere isolati, prigionieri del dolore. Successivamente ho condiviso questa sorta di diario-dialogato con un amico bergamasco, visto che Brescia e Bergamo sono state le città più colpite della Lombardia. Lui è il professor Ivo Lizzola, docente dell’università di Bergamo ed ex preside della facoltà di Scienze della formazione. Ogni sera gli mandavo uno stralcio di quel diario con le varie riflessioni della mia gente e il giorno dopo lui mi faceva riavere i commenti. Un modo di tenere in vita il tema della speranza, soprattutto dicendocelo e non, invece, nascondendolo”.
Così, piano piano, quel quaderno è diventato un “barattolo d’oro” condiviso da tutta la comunità grazie agli oltre 400 whatsapp e altre chat quotidiane che don Marco ha inviato, con la raccomandazione di diffonderli anche alla rete delle varie amicizie. Una sorta di “catena” per trasmettere pensieri, riflessioni, immagini e anche disegni realizzati dai bambini. In questo modo ha chiesto alla sua gente di conservare la speranza in un periodo così difficile. L’idea, ora, è di ricavarne una pubblicazione per poi destinare i proventi delle vendite alle famiglie più bisognose.
Ma tra le tante “confessioni” annotate nel quaderno, quale ha colpito di più don Marco? “Al di là del messaggio dei miei genitori, che sinceramente non mi aspettavo, c’è la riflessione di un ragazzo diciottenne che esprimeva grande incertezza nei confronti del futuro mi ha fatto molto pensare…. Il non riuscire a immaginare a cosa andremo incontro, l’angoscia di non avere prospettive. Da che parte dovrò stare? In cosa mi dovrò impegnare? Quale sarà la mia strada?”.
Domande sicuramente impegnative alle quali non è semplice rispondere. Don Marco, però, indica la via. “Certamente non sappiamo cosa capiterà in futuro, però saremo sicuramente insieme. Di conseguenza la comunità avrà davanti a sé una grande sfida, quella di non restare isolata. Il virus ci ha costretti a vivere da soli, facciamo allora in modo di vivere ‘insieme’. Nessuno escluso. Io come comunità mi sto domandando con adulti e adolescenti, quali possano essere le parole intorno alle quali ricostruire la nostra esperienza umana e cristiana. Poi, inizieremo a condividerle… Da queste parole – continua – ci sarà una nuova solidarietà che potrà essere un nuovo modo di pregare, di annunciare il Vangelo. Sono certo che da questa esperienza ne usciremo più veri. Quindi anche le comunità saranno meno di cartapesta, di facciata, ma più vitali e concrete”.
Comunità che però dovranno fare a meno di tanti nonni morti in piena solitudine, senza neanche poter ricevere l’ultima carezza dalle persone care…“Il modo migliore per ricordare e onorare i nostri nonni – osserva don Marco – è non dividerci, non essere banali nella vita. Ricostruire, cioè, uno stare insieme che ci permetta di dare il meglio di noi stessi”.
La ricostruzione, però, sicuramente non potrà non ripartire dalle nuove generazioni e dall’incontro con Dio, l’unico in grado di regalarci un’esperienza vera e profonda. I giovani, infatti, con la loro disinvoltura e perché no con un pizzico di sana spregiudicatezza possono incarnare lo slancio necessario per un cambiamento repentino di direzione… Naturalmente quando si parla di ragazzi non si può non pensare agli oratori…
“Credo che in questo momento l’oratorio sia una grande provvidenza, però non dobbiamo avere fretta di domandarci cosa possiamo fare di concreto. Il sogno dell’oratorio è che i nostri ragazzi non siano lasciati fuori dalle responsabilità che hanno e dal poter costruire con loro il futuro. Oggi l’oratorio non coincide con quello che si può fare con loro ma con quello che desiderano fare. È importante, allora, ascoltarli, capirli, aiutarli a giocarsi le loro responsabilità, anche in prospettiva futura”.
Ma oggi cos’è che più spaventa i nostri ragazzi? Don Marco non ha dubbi. “La loro più grande paura è sentirsi fragili e non sapere dove appoggiarsi…Sta a noi, dunque, dargli sostegno e nello stesso tempo riceverlo da loro. Non rinunciamo a dare spazio ai giovani cercando di farli diventare dei sostegni intelligenti reciproci…”.
La nostra chiacchierata è giunta al termine. Prima di salutarci, però, non posso non chiedere a don Marco Mori un pensiero sulla vicenda di Silvia Romano, la ragazza liberata dopo un lungo rapimento. “Innanzitutto sono contento che sia tornata libera. Alla luce di quanto vissuto non posso che augurarle tanta pace, in questo momento ha bisogno di essere lasciata tranquilla. Mi stupisco a volte per l’irruenza stupida con cui noi giudichiamo le esistenze altrui, come se fossimo in grado di conoscere ogni cosa dall’esterno. Dovremmo essere tutti molto più intenti a gioire e non a giudicare…”.