IL TEMPO DEL CANTO
“Perciò vi dico: Non siate in ansia per la vostra vita di che mangerete, né per il vostro corpo di che vi vestirete. La vita vale più del nutrimento e il corpo più del vestito. Osservate gli uccelli del cielo essi non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure il Padre vostro celeste li nutre; non contate voi forse più di loro? Perché siete in ansia?” (Mt 6,25-26.28). Questo invito di Gesù ci tocca in modo particolare. L’ansia è, certamente, un assillo che colpisce molti, in forme più o meno intense. Tante sono, infatti, le occasioni che generano ansia, a seconda delle responsabilità, dell’età, delle condizioni sociali o esistenziali in cui ci si trovi.
Una ragione tra tutte è, certamente, quella economica, legata ai beni primari: si va in ansia quando non ci sono i soldi per fare la spesa, quando le bollette sono in scadenza e il ventisette del mese è ancora lontano o quando un figlio ha bisogno di andare dal dentista e nel conto corrente non abbiamo disponibilità. Gesù sembra conoscere tutte queste possibili fonti di ansia, dimostra la sensibilità di chi è vicino ai problemi più ordinari e frequenti nelle classi più precarie della scala sociale. Ma, invece di assumere tranquillanti, egli propone un farmaco molto originale: alzare lo sguardo verso l’alto dove volano spensierati gli uccelli. Osservare i loro comportamenti, dice Gesù, è una scuola di serenità. Non costa nulla, e adesso che sta arrivando la primavera, l’offerta è davvero copiosa! Ai passeri e ai pettirossi, ai cardellini e agli usignoli, si aggiungono le rondinelle che fanno il nido sotto il tetto dei nostri balconi. Forse ritornano dalle calde regioni africane proprio per darci una scossa e indurci a un sorriso fiducioso: se il Creatore si preoccupa per noi come potrà dimenticarsi di voi? sembrano dire. Insieme agli uccelli del cielo, Gesù invita a guardare anche ai gigli dei campi per guarire dall’ansia, come a dire che c’è una stagione che viene a liberarci da questa brutta compagna, ed è proprio la primavera.
Si fece terra
È raro che si pensi agli uccelli come a sedatori di ansia, che si crei un legame d’intesa con loro atto a farne dei collaboratori della nostra pace. Chi li ama il più delle volte li imprigiona nelle uccelliere o nelle gabbie per godere privatamente dei loro canti e dei loro colori, senza chiedere altro. Eppure davvero vitale fu il ruolo di corvi e colombe, al tempo del diluvio, quando Noè, i suoi figli e tutte le coppie delle specie animali, reclusi nell’arca, aspettavano con ansia che le acque si asciugassero e comparisse la terra.
“Trascorsi quaranta giorni, Noè aprì la finestra che aveva fatto nell’arca e fece uscire un corvo. Esso uscì andando e tornando, finché si prosciugarono le acque sulla terra. Noè poi fece uscire una colomba, per vedere se le acque si fossero ritirate dal suolo; ma la colomba, non trovando dove posare la pianta del piede, tornò a lui nell’arca, perché c’era ancora l’acqua su tutta la terra (…) Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco una tenera foglia di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra. Aspettò altri sette giorni, poi lasciò andare la colomba; essa non tornò più da lui” (Gen 8,6-12). La colomba è, altresì, simbolo di semplicità e di purezza, significative virtù necessarie a liberarsi da diversi tipi di ansia. Parlando di lei, così si esprime sant’Agostino: “Orbene, che bisogno c’è di dilungarci a mostrare la semplicità delle colombe? La colomba devi imitarla tranquillamente. Osserva come le colombe godono di stare insieme: dappertutto volano insieme, si cibano insieme, rifiutano di star sole, godono della vita comune. Sono animate d’amor fervente, tubano con gemiti amorosi, generano la prole col baciarsi”. Un esempio davvero straordinario!
Maestri d’amore
Molti sono gli uccelli che la Bibbia – in sintonia con le altre culture del suo tempo – indica come portatori di valori preziosi per la vita umana. Da essi si può trarre il beneficio di una grande sapienza che è fonte di salute fisica e morale. Esiste un uccello detto upupa. I figli, quando vedono i genitori invecchiati, strappano loro le vecchie ali, leccano loro gli occhi e scaldano i genitori sotto le proprie ali e quasi li covano, così da farli ridiventare giovani. Allora dicono ai loro genitori: “Come voi ci avete covati e vi siete dati grande pena per farci crescere, così facciamo anche noi nei vostri confronti”.
Un esempio davvero ammirevole di amore filiale che esorta tutti i figli a provare tenerezza e gratitudine verso i propri genitori quand’essi ritornano, con la vecchiezza, quasi allo stato infantile e allora sono i figli a doversi prendere cura di chi li ha allevati, invertendo i ruoli. C’è un uccello che parla, invece, dell’amore dei genitori verso i figli ed è il pellicano. Nel Medioevo il pellicano veniva visto come un uccello che pur di nutrire i propri piccoli si lacerava il petto e dava loro il proprio sangue; si trattava con ogni probabilità di una credenza derivata dalla postura che questi uccelli assumono nel dar da mangiare ai loro piccoli. Il fatto che i pellicani adulti curvino il becco verso il petto per imboccare i cuccioli con i pesci che, in realtà, trasportano nella loro caratteristica sacca sotto il becco, ha indotto a pensare che i pellicani adulti si lacerassero il torace per nutrire i loro nati col proprio sangue. Un gesto che rende questi uccelli simboli di quella carità e abnegazione con cui, generalmente, i genitori amano i figli.
Ma c’è di più. L’idea che il pellicano nutrisse i figli con il proprio sangue fa sì che, addirittura, questo uccello diventi un simbolo dell’amore di Cristo che si sacrifica sulla Croce, donando il sangue che esce dal suo petto per dare salvezza all’umanità. Nella religione cristiana il pellicano rappresenta, infatti, il sacramento dell’Eucarestia: il momento in cui – nella dottrina cattolica – il sacerdote rende grazie a Dio, offrendogli il pane e il vino che, per opera dello Spirito Santo, diventano realmente il Corpo e il Sangue di Cristo, lo stesso Corpo e lo stesso Sangue offerti da Gesù sulla croce. Ed è per tutto ciò che nel Canto venticinquesimo del Paradiso Dante cita il pellicano proprio in riferimento all’episodio dell’ultima cena in cui l’apostolo Giovanni reclinò il capo sul petto di Gesù: “Questi è colui che giacque sopra ‘l petto del nostro Pellicano, e Questi fue di su la croce al grande officio eletto”.