IL SUICIDIO IMPERFETTO di DAVID ROSSI

intervista a Davide Vecchi
By redazione Eco
Pubblicato il 30 Ottobre 2017

È da poco in libreria il volume del noto e stimato GIORNALISTA de il Fatto Quotidiano che, attraverso documenti inediti, perizie e testimonianze, entra nella scena della morte, piena di interrogativi, del capo della comunicazione di Monte Paschi di Siena

Spostiamo calendario e lancette indietro, precisamente al 6 marzo 2013, ore 19,43. David Rossi, 52 anni, stimato capo della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena precipita dalla finestra del suo ufficio situato al terzo piano della sede principale della banca. Il corpo del manager senese finisce sul selciato di vicolo Monte Pio dove vi resterà agonizzante per circa venti interminabili minuti, come dimostrato dalle registrazioni della videocamera di sorveglianza. Poco prima, alle 19.02, parla al telefono con la moglie, Antonella Tognazzi, che è a casa malata e alla quale deve fare un’iniezione di antibiotico. Le dice che presto sarà lì con la cena già ordinata e che passerà a ritirare in una rosticceria che si trova lungo il tragitto. A casa, però, non ci tornerà più. Cosa cambia, tragicamente, i suoi piani? Alle 19.10 la moglie, sapendolo sulla via di casa, prova a telefonargli per chiedergli di fermarsi in farmacia. Il cellulare, però, squilla a vuoto. Da quel momento resterà muto. Anzi, no. Come riportato nel libro pubblicato alcune settimane fa da Davide Vecchi, Il caso di David Rossi – Il suicidio imperfetto del manager Monte Paschi di Siena (Chiarelettere, pp.176, euro 12,00) ci sarebbero state, infatti, alcune telefonate ricevute e fatte dall’utenza di Rossi dopo la sua morte… Per non parlare poi del “mistero” della cassa dell’orologio del manager di Mps. “Nel video – si legge in uno stralcio del libro di Davide Vecchi, inviato di spicco de il Fatto Quotidiano, nonché apprezzato cronista di nera e giudiziaria e scrittore di successo – si vedono gli ultimi tre metri di caduta di Rossi e l’impatto al suolo alle ore 19.43. Dopo venti minuti si vede cadere un oggetto d’acciaio che finisce ben distante dal corpo di David: dalla parte opposta del vicolo del Monte Pio. Secondo quanto ricostruito dai periti si tratta della cassa dell’orologio Sector che Rossi portava al polso. Già il cadere venti minuti dopo il manager lascia pensare che qualcuno fosse nel suo ufficio. I primi a intervenire sul corpo di David sono i medici del pronto intervento chiamati solamente alle 20.41. Tentano di rianimare Rossi, inutilmente. Così chiamano il medico legale che arriva insieme agli inquirenti e lasciano il vicolo perché il loro lavoro è finito. Quando dopo le 22 arriva anche la polizia scientifica per fare i rilievi fotografici, la cassa dell’orologio, caduta a metri di distanza dal cadavere, compare magicamente sopra la testa di Rossi. Agli atti sono allegate due foto che immortalano due posizioni diverse della cassa: la prima è inserita nelle immagini del medico legale e lo ritrae sul punto dove è caduto, sulla parete opposta a dove si trova il cadavere, la seconda invece – compiuta dalla scientifica e indicata come reperto numero 3 – lo mostra vicino a Rossi. Qualcuno l’ha spostato? Chi? E perché? Il cinturino, addirittura, viene ritrovato accanto al piede di David. Eppure, come si vedrà, nessuno di quanti sono intervenuti inizialmente sul posto lo hanno visto e difficilmente nelle operazioni di primo soccorso avrebbe potuto rimanere lì, attaccato al corpo. Sul polso, inoltre, il manager ha un segno di compressione di forma identica alla cassa. Eppure nella caduta David atterra con il bacino e non sbatte mai i polsi a terra: nei venti drammatici minuti di video in cui si vede Rossi in agonia, le braccia sono gli unici arti che riesce a muovere. Non solo, ma le maniche della camicia sono allacciate e quindi, se l’avesse perso nell’impatto, la cassa sarebbe rimasta al loro interno”. Insomma, il libro va assolutamente letto e con grande attenzione, anche perché l’autore propone un lavoro minuzioso e professionale mettendo in fila fatti, perizie, testimonianze e lacune che ne fanno un “giallo” a tutti gli effetti. Purtroppo, però, non figlio della fantasia di uno scrittore noir…

Per la famiglia, l’avvocato e i periti non ci cono dubbi: “David è stato ucciso da almeno due persone”. Nessun dubbio neanche per i magistrati: si tratta di suicidio e nella vicenda non c’è nulla di misterioso. Il 5 marzo 2014, infatti, il giudice per le indagini preliminari rigetta l’opposizione della vedova Antonella Tognazzi presentata nei confronti della richiesta di archiviazione formulata dai pubblici ministeri. È lo stesso epilogo della riapertura delle indagini decretata il 17 novembre 2015 dalla Procura della Repubblica di Siena, che aveva accolto l’istanza avanzata in tal senso sempre dalla Tognazzi, sulla base di vecchi argomenti e nuove allegazioni. E cioè la perizia grafologica in merito all’autenticità di tre fogli rinvenuti strappati nel cestino dell’ufficio del marito (per i magistrati, come osserva Vecchi nel libro, rappresentano la prova regina) insieme ad alcuni fazzoletti di carta sporchi di sangue e alle linguette di alcuni cerotti; l’analisi del medico legale e le relazioni di un ingegnere. La firma sulla richiesta di archiviazione posta da procuratore capo, Salvatore Vitello, porta la data dello scorso 8 febbraio. “E anche qui – evidenzia Vecchi – come nella perizia dei consulenti, è un fiorire di ipotesi e condizionali. Nulla pare essere certo. Ma se i consulenti possono agire con un margine di dubbio, da un magistrato ci si aspetta qualche certezza e soprattutto la volontà di acclarare quanto accaduto. Non deve, la giustizia, individuare la verità contro ogni ragionevole dubbio? Invece, scrive Vitello, l’ipotesi di omicidio non si può escludere in assoluto, tuttavia non ha elementi circostanziali o biologici che la supportino”.

Insomma, una storia piena di chiaroscuri che, al di là delle due ordinanze di archiviazione, lascia molte domande in sospeso, soprattutto per i familiari di David Rossi. E non solo… Nel tentativo, dunque, di conoscere ulteriori particolari e sensazioni di chi ha “vissuto” professionalmente e umanamente dentro questa triste storia, siamo andati a “rubare” un po’ di tempo” all’autore del libro. Ascoltiamolo.

Che ritratto puoi farci di David Rossi?

David Rossi era prima di tutto un uomo di 52 anni. Nato come giornalista nei quotidiani locali di Siena, conosce Pierluigi Piccini, un politico degli allora Democratici di Sinistra, con il quale costruisce un rapporto di amicizia tanto che quando Piccini diventa sindaco di Siena decide di portare in Comune Rossi come suo portavoce e addetto stampa. Da qui David scopre quello che si rivelerà il suo talento: la comunicazione. Al termine del mandato da sindaco Piccini sarebbe dovuto diventare presidente dell’allora potentissima Fondazione Monte dei Paschi di Siena ma viene ostacolato dal presidente di Banca d’Italia che a lui preferisce nominare Giuseppe Mussari. Piccini è amico di Mussari e gli presenta David convincendolo ad assumerlo alla comunicazione della Fondazione. I due qui si conoscono e iniziano a lavorare insieme. Un connubio che durerà per oltre dieci anni. Rossi seguirà Mussari anche in banca Mps e diventerà il capo della comunicazione e di tutta l’area marketing di Rocca Salimbeni diventando molto potente grazie anche alle decine di milioni che poteva investire per conto della banca in pubblicità ed eventi commerciali. Aveva rapporti diretti con politici, direttori di giornali, editori. Quando Mussari lascia la banca per l’Abi e poi viene indagato, David rimane a lavorare in Mps mantenendo il suo ruolo anche con i nuovi vertici, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola.

Da quanto emerso dalle inchieste e dalle informazioni in tuo possesso, David doveva guardarsi alle spalle?

Da giornalista che segue la vicenda Mps sin dall’inizio dello scandalo, nel gennaio 2013, non credo che si possa ipotizzare una figura che potesse in qualche modo impensierire Rossi. Aveva però paura della magistratura perché gli inquirenti si erano convinti che lui coprisse Mussari e i vecchi vertici, credevano fosse custode di molti segreti, tanto che poche settimane prima della sua scomparsa è oggetto di una pesantissima perquisizione. Perquisizione a lui, alla moglie Antonella Tognazzi, nell’ufficio a Siena in banca, in un ufficio in uso a Milano, nell’abitazione di famiglia, nella macchina: non trovano nulla. Sequestrano solamente una agenda con degli appuntamenti. Questo perché, per legge, gli inquirenti possono sequestrare del materiale solo se contiene o rappresenta elementi utili alle indagini o prove del reato ipotizzato nella richiesta di perquisizione. Ecco: David non nascondeva nulla.

Nel libro parli di tante cose che non tornano. In particolare cosa metti in cima alla lista?

La leggerezza con la quale sono state condotte le indagini iniziali subito dopo la morte di David il 6 marzo 2013. Indagini al limite della sciatteria.

Sull’orologio che sarebbe finito accanto al corpo del manager solo dopo la morte e i fazzoletti sporchi di sangue spariti dal cestino del suo ufficio, quali sono state le conclusioni della Procura?

Purtroppo non ci sono conclusioni della Procura in merito a questi due oggetti perché è stata proprio la Procura a non occuparsene. Non solo: uno dei due magistrati titolari del fascicolo, Aldo Natalini, ha fatto distruggere i reperti più importanti (i sette fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio di David) senza neanche farli analizzare. E li ha fatti distruggere durante il periodo di vacanza della Procura senza avvisare i familiari, i legali, le parti e senza aspettare che il giudice per le indagini preliminari decidesse se archiviare o proseguire nelle indagini. Se un atto simile lo avesse fatto un parente di David sarebbe stato inquisito almeno per inquinamento delle prove.

L’autopsia, invece, ha chiarito con certezza l’origine di alcuni graffi e tumefazioni riscontrati sul cadavere?

No. La prima autopsia è anche questa superficiale. Tutto ciò che sappiamo delle indagini su David si deve alla seconda inchiesta avviata solamente due anni dopo, nel 2015, da un magistrato appena arrivato a Siena, Davide Boni, e poi trasferito pochi mesi dopo a Urbino come procuratore capo, un salto di carriera notevole. Grazie alla seconda inchiesta è stata svolta una seconda autopsia che ha certificato non solo come tutti gli ematomi e i lividi della parte anteriore del corpo di David non fossero compatibili con la caduta, ma soprattutto che questi segni sono frutto di una colluttazione precedente alla defenestrazione.

Se fosse vera questa seconda ipotesi, chi avrebbe potuto volere la morte del manager di Montepaschi?

È impossibile da dire, partendo dal presupposto che nessuno può desiderare la morte di un uomo. Per me è ovviamente inconcepibile. Dalle risultanze della seconda indagine però si può ipotizzare che qualcuno si sia sentito in pericolo e abbia avuto paura nel sapere che Rossi aveva espresso l’intenzione di andare dai magistrati a parlare e “raccontare tutto”. Volontà scritta via mail da David a Fabrizio Viola, all’epoca al vertice di Mps. Lo stesso perito nominato dalla Procura, Davide Zavattaro dei Ris dei Carabinieri, ipotizza che Rossi abbia tentato di fuggire ai suoi aggressori scappando dalla finestra per raggiungere il tetto ma è precipitato.

In questo caso, dunque, la morte di David Rossi andrebbe iscritta d’ufficio nel lungo elenco dei misteri italiani… Secondo te, allora, per incapacità, omertà, deferenza ai poteri forti o altro?

Bella domanda. Da cittadino le rispondo che così come quello di Roberto Calvi, trovato morto impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra con in tasca e sotto la cintura dei mattoni, o quello di Raul Gardini che si sarebbe ucciso sparandosi con una pistola poi trovata a metri di distanza dal corpo, anche quello di David Rossi è una morte decisamente misteriosa. Il titolo del libro è appunto Il suicidio imperfetto, perché sono troppe le cose che non tornano. Quindi, da cittadino, credo che David, potente uomo di Mps, nel momento in cui la banca stava franando portando l’intera città nel fallimento, era ritenuto una cassaforte vivente di segreti. Qualcuno si è spaventato e ha tentato di minacciarlo, almeno, per convincerlo a non parlare con i magistrati. Da giornalista che si è occupato della vicenda le rispondo che, stando alle poche risultanze disponibili delle indagini, chi ne esce peggio è proprio la Procura di Siena. Per una lunga serie di motivi. Scelte sbagliate. Omissioni. Errori. Ora, posto che è ormai acclarato quanto male siano state condotte le prime indagini, le possibilità sono due: o sono state fatte male per incapacità o per colpa.

Perché David Rossi aveva fretta di parlare con la Procura?

David aveva paura di essere arrestato. Dopo le perquisizioni, come scrisse a Viola, riteneva che i magistrati lo avessero “male inquadrato”. Quindi voleva andare esclusivamente a chiarire la sua posizione, a spiegare che lui non c’entrava nulla con il crack di Mps ed era pronto a riferire tutto ciò che sapeva. Lo scrisse lui stesso a Viola: “So molte cose, ho lavorato con tutti”.

A distanza di anni si è saputo se lo ha fatto?

È stata l’ultima domanda che la moglie, Antonella Tognazzi, gli ha rivolto prima che morisse: Hai preso appuntamento con i magistrati? Lui non le ha risposto. E a oggi nessuno ha saputo dire se effettivamente c’è stato quell’incontro o se almeno fosse stato fissato. Eppure i magistrati lo sanno sicuramente, ma non hanno detto nulla. Strano.

I familiari di Rossi come stanno vivendo il tutto? Hanno in animo qualche iniziativa?

Antonella, la vedova di David, e la figlia acquisita, Carolina Orlandi, sono donne che io ho imparato a conoscere nel tempo seguendo la vicenda e sono persone straordinarie. Di una forza morale e capacità umana inspiegabile a parole. Nei primi anni hanno sopportato di tutto, non solo l’archiviazione ma soprattutto il silenzio e l’omertà di una città come Siena che le ha lasciate sole. Col tempo però la situazione è cambiata e oggi sono in molti a chiedere con loro una verità credibile per David. Non so però che iniziative legali potranno prendere. È evidente che non possono rivolgersi alla Procura di Siena visto che per due volte è riuscita ad archiviare il caso come suicidio nonostante i macroscopici errori commessi. L’unica strada plausibile è quella di rivolgersi alla Procura generale di Firenze nella speranza che avochi a sé le indagini. Ma questo è il lavoro dei loro legali. Io ritengo che sarebbe molto utile, anche per restituire ai familiari di Rossi e a tutti i cittadini la credibilità nell’operato dei magistrati senesi, che intervenga il Consiglio superiore della magistratura per valutare come sono state svolte le indagini e l’operato di questi anni.

Che ne pensi delle recenti dichiarazioni dell’ex sindaco di Siena Piccini, che di fatto hanno sospinto nuovi dubbi sulla morte di Rossi?

Se si riferisce all’opinione diffusa in città secondo la quale David non si sarebbe ucciso ne ho sentito parlare anche io. Ma io sono un giornalista e ho il dovere, professionale prima ancora che morale, di riportare e diffondere solo notizie che abbiano riscontri concreti e veritieri. Quindi anche le dichiarazioni di Piccini sui presunti festini in ville toscane ai quali partecipavano vari personaggi senesi mi spiace ma se non è dimostrabile per me è solo una chiacchiera, una voce che non ritengo debba finire sui giornali senza prima avere riscontri oggettivi.

Tra un paio di mesi dovrebbe esserci la sentenza di primo grado del processo che ti vede tra gli imputati insieme alla vedova di David Rossi. Chi vi accusa e di cosa?

Sì, il primo dicembre 2017 c’è l’udienza. Udienza che doveva svolgersi a giugno ma che per inesplorabili motivi giudiziari è slittata addirittura di sei mesi. Nel 2015 mentre Boni aveva aperto il nuovo fascicolo e indagava concretamente su quanto accaduto a David, il magistrato titolare delle prime indagini, Aldo Natalini, ha deciso d’ufficio – cioè senza querele di parte di nessuno – di rinviare a giudizio Antonella e me. Motivo? Io ho pubblicato su il Fatto Quotidiano in esclusiva e prima di altri lo scambio di mail tra Rossi e Viola due giorni prima che David morisse. Il giorno prima di scriverne avevo avvisato Viola chiedendogli un commento in merito e lui mi disse di scrivere che in quei giorni si trovava all’estero, frase che ho riportato nell’articolo. Eppure Natalini ci ha rinviato a giudizio per violazione della privacy di Viola.

E la signora Antonella Tognazzi di cosa è accusata?

Secondo il pm fu lei a darmi le mail per farle pubblicare sul giornale così da poter ricattare la banca. Del resto si sa: se qualcuno ha dei documenti riservati con i quali vuole ricattare qualcuno cosa fa? Li rende pubblici, addirittura su un giornale nazionale come il Fatto. Ovvio. Comunque per me fa parte del lavoro e aspetto serenamente l’esito del processo. Mi spiace molto per Antonella perché l’accusa è umanamente infamante più che penalmente rilevante: aver tentato speculato sulla morte del marito. Secondo me è assolutamente infondata.

Sulla vicenda e soprattutto sui punti oscuri emersi l’attenzione generale dei media, nel corso degli anni, non è stata particolarmente “appassionata”. A tuo avviso perché?

Nel libro fornisco qualche spunto anche in merito a questo. Molti inviati di giornali nazionali, me compreso, sono arrivati a gennaio 2013 per lo scandalo della banca. Siamo rimasti per mesi. Ma la vicenda era legata a bilanci falsificati, manager accusati di reati commessi a mezzo numeri e finanza, per capirci. Con la morte di David tutto cambia. Un conto è scrivere e raccontare di politici accusati di essere corrotti, contratti capestro e vicende economiche, un altro quando un uomo di 52 anni perde la vita. Da allora il cadavere di David ha lentamente spinto un velo di silenzio su tutto.

Hai mai ricevuto pressioni o minacce in merito alla tua attività in questa storia?

Si, certo. Ma fa parte del mio lavoro. Pressioni e minacce poi sono di diverso tipo. Sono soggettive. Il fatto che mi ritrovi a processo per aver svolto il mio mestiere e senza che nessuno non solo abbia sporto querela ma neanche poi si sia costituito parte civile, credi sia da annoverare tra le pressioni?

Che ne pensi della scelta della Procura della Repubblica di Siena di pubblicare integralmente sul proprio sito l’ordinanza di archiviazione del gip Roberta Malvasi depositata in data 4 luglio 2017?

Se l’intento della Procura è quello di fare completa chiarezza sulla vicenda dovrebbe allora pubblicare integralmente anche i risultati delle due autopsie, gli atti di opposizione dei legali della vedova Rossi e le relative perizie di parte e di esperti nominati dalla Procura. In quel caso il lettore avrebbe una visone completa della vicenda.

Alla luce di questa storia quali considerazioni hai maturato sull’operato della magistratura?

Io credo fortemente nella magistratura. Ho una fiducia assoluta in ciò che accade nelle procure d’Italia e nel lavoro degli inquirenti, difficile, complicato e spesso svolto senza i mezzi adeguati e necessari al compito che è chiesto loro. Ed è proprio per questa sorta di devozione, quando mi trovo di fronte a magistrati che permettono ai cittadini di avere dei dubbi sul loro operato, mi sento in dovere di criticarli e sollevare quei dubbi: nella speranza che qualcuno possa scioglierli così da restituire a tutti la fiducia nella magistratura. Anche ai cittadini di Siena.

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