Tutti i giornali italiani hanno affrontato il tema della maternità surrogata detta più semplicemente “utero in affitto”. Tocca a me ora, in qualità di mamma e di nonna, prima che di giornalista, analizzare questa dolorosa realtà: dolorosa in primo luogo perché l’intreccio di uteri, semi, ovuli, comperati (quasi sempre) donati (praticamente mai), genera nel mio cuore una sofferenza che è davvero difficile da sostenere; perché poi questo commercio avviene attraverso madri che vendono la loro capacità di generare – nella maggior parte dei casi – per estremo bisogno economico; e ancora perché come ha detto il grande scrittore Ferdinando Camon, si tratta di un doppio lutto, infatti la madre che dà la vita poi scompare e perde il figlio che contemporaneamente perde sua madre. C’è chi dimentica che il rapporto che si genera tra il corpo e la psiche della mamma e il corpo e la psiche del figlio, non dura solo il tempo della gestazione ma stabilisce un rapporto che continuerà per sempre e che non è solo un rapporto di carne e sangue ma di sogni e respiri condivisi insieme in un solo corpo per nove meravigliosi mesi.
Esiste ancora una linea di demarcazione rispetto a tali scelte così spaventosamente di confine?
Si può ipotizzare, in casi come questi, un altro percorso?
Ho avuto dal Signore la grazia di poter avere gravidanze bellissime che mi hanno portato tre figli, due maschi e una femmina, oggi adulti, che mi hanno dato, a loro volta due nipotini, attraverso i quali riconosco i tratti e le movenze della mia famiglia, dei miei genitori, dei miei nonni. So bene di essere una donna che è stata privilegiata dalla provvidenza: devo però dichiararvi, cari amici dell’Eco, con uguale sincerità, che se non fossi riuscita ad avere figli naturali avrei, senza alcun dubbio, scelto la strada dell’adozione. L’adozione, che non rappresenta una “seconda scelta” – avrei voluto adottare il quarto figlio ma la morte di mio marito e la mia età me lo hanno impedito – l’adozione che è la strada “grande” verso la maternità e seppur la più impegnativa, è la più giusta, la più sana, quella che porta con sé il messaggio più importante di politica attiva, un abbracciare il mondo per condividere il fatto che i figli degli altri possono diventare, saranno i nostri figli. Ci chiediamo perché l’istituto dell’adozione comporta, per coloro che lo vogliono utilizzare, così tante difficoltà, mentre le richieste sarebbero decine di migliaia e i bambini che vorrebbero una famiglia infinitamente di più. La situazione italiana racconta di pochissimi bambini italiani adottabili, poiché molti sono ancora in situazione di stallo, con famiglie di origine che mantengono un flebile rapporto e che sono ostacolo per lo stato di adottabilità e molti ancora troppo grandi o troppo malati…per essere “scelti”.
Per quello poi che riguarda l’enorme numero di bambini stranieri adottabili – davvero un “mondo intero” in stato di necessità e bisogno – è la nostra burocrazia e la discutibile gestione della Cai-Commissione adozioni internazionali, che rappresenta il problema maggiore. Nonostante un’opinione pubblica e bravi colleghi giornalisti che insieme esercitano da molto tempo pressione sull’attuale governo, il premier Renzi non ha ancora offerto soluzioni per risolvere la questione. Per un bimbo un giorno equivale a un anno: pensate che in Congo ci sono bambini che debbono essere adottati da famiglie italiane che aspettano da 30 mesi, quasi due anni e mezzo.
E allora comprenderete come – per alcuni – comperare la gravidanza di una donna è più facile, economico, veloce! Insieme al senso delle istituzioni, al buon senso comune, varrebbe la pena di recuperare, e subito, prima che sia troppo tardi, anche il senso dell’amore e della famiglia.