IL “REMOTO” È GIÀ FUTURO…

Il fenomeno dello smart working
By Antonio Andreucci
Pubblicato il 30 Novembre 2020

Secondo gli esperti se non ci fosse stata l’attività da casa, da un punto di vista giuridico, normativo, ma anche culturale i danni economici sarebbero stati peggiori di quelli che già stiamo soffrendo. Vediamo i pro e i contro…

Alla fine, causa motivi di forza maggiore come il Covid-19, anche da noi è esploso il fenomeno dello smart working, attività di cui i più ignoravano l’esistenza. Intanto, è bene precisare che usiamo impropriamente un termine inglese che letteralmente significa “lavoro intelligente”. All’estero, dove si pratica da anni, indica un lavoro svolto in modo efficiente e/o efficace. Gli inglesi usano “working remotely” o semplicemente “working from home” per intendere lavoro da remoto o da casa, mentre usano “flexible working” se hanno orari flessibili oppure se lavorano un po’ da casa e un po’ dall’ufficio. Detto questo, qualche anno fa al Politecnico di Milano avviarono corsi specifici sul fenomeno e usarono per la prima volta questa definizione, alla quale ci atteniamo. Quindi, complice anche la pandemia e il lockdown, in poco tempo molte aziende e uffici pubblici hanno dovuto attivarsi per permettere al personale di poter lavorare da casa. Un’attività che, comunque, era già praticata da oltre mezzo milione di persone, con una crescita del 20% nel 2019 rispetto all’anno precedente (in particolare, le iniziative strutturate di smart working avevano interessato il 58% delle grandi aziende, il 12% delle piccole e medie imprese e il 16% delle pubbliche amministrazioni). Poi, con la pandemia c’è stata un’accelerazione che ha colto di sorpresa tutti e in pochissimo tempo ci si è organizzati alla meglio, attuando una specie di smart working o lavoro agile, come prevede la legge numero 81 del 2017. Quest’ultima pone l’accento sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto (come ad esempio: pc portatili, tablet e smartphone).

L’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano ha calcolato che oltre 6 milioni di lavoratori – di cui più di un milione e mezzo di dipendenti pubblici – hanno sperimentato un diverso modo di lavorare. L’esperienza di lavoro a distanza dalle sedi abituali ha aperto interessanti prospettive per un’adozione più diffusa di questa attività e l’89 % delle persone coinvolte ritiene che l’emergenza abbia permesso di acquisire un’esperienza preziosa da capitalizzare per il futuro. Secondo gli esperti, infatti, se non ci fosse stato lo smart working, da un punto di vista giuridico, normativo, ma anche culturale, i danni economici sarebbero stati peggiori di quelli che già stiamo soffrendo. È stata l’unica possibilità di conciliare il distanziamento fisico con la necessità di assicurare un certo livello di continuità lavorativa in molti settori. Un altro studio condotto da Eurofound e dall’Organizzazione mondiale del lavoro confronta tra loro i paesi dell’Unione Europea con altri in cui lo smart working è già molto diffuso, come Giappone e Stati Uniti (qui la percentuale di lavoratori in smart working è del 43%). Dai risultati emerge che in Europa l’Italia è ultima, preceduta da Grecia, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria. In testa ci sono i paesi nordici come Danimarca e Svezia, poi Paesi Bassi, Regno Unito (ante Brexit), Lussem-burgo, Francia ed Estonia. Fuori dall’Unione, scopriamo che nel paese del Sol levante viene incoraggiato il lavoro a distanza per ridurre gli spazi negli uffici. Gli smartworker lavorano molto anche durante il weekend, in Giappone circa il 30% lavora 6/7 giorni a settimana. Bene anche in America del Sud, dove nelle grandi città brasiliane viene utilizzato e incoraggiato per risparmiare tempi di spostamento lunghissimi.

C’è da dire che quello che si sta attuando adesso da noi è privo di alcune caratteristiche chiare che dovrebbero contraddistinguerlo, in quanto lo smart working è un modello organizzativo, rappresenta la possibilità che si offre alle persone di poter scegliere luoghi e orari di lavoro in cambio di una responsabilizzazione. In questo caso manca la possibilità di scelta perché vi è una costrizione dovuta al momento particolare e manca pure il percorso di cambiamento del modello organizzativo. Diciamo che c’è ancora dell’improvvisazione, ma si può e si deve migliorare. Stiamo ancora sperimentando, e proprio perché quello che c’è non è il vero smart working, stiamo imparando molto di più su questa attività di quanto avremmo scoperto in condizioni normali. L’impossibilità di poter scegliere ci sta vincolando a sperimentare dei modi di lavorare che senza questa forzatura difficilmente avremmo appreso e ce ne sta facendo vedere i grandi elementi di valore. In poche settimane le persone hanno imparato a utilizzare strumenti di collaborazione innovativa, a interagire tra gruppi distanti fra loro, a mantenere relazioni utilizzando canali digitali. Ora occorre capire cosa è accaduto e porre le basi per fare in modo che quando ci saranno le condizioni per attuare anche da noi il vero smart working, cioè saremo liberi di scegliere, avremo molta più maturità per riconfigurare un modo di lavorare diverso da quello attuale.

Come tutte le cose, anche lo smart working presenta aspetti positivi e negativi. Nei dieci anni in cui è stato praticato in Italia l’Osservatorio ha misurato i benefici che sia il lavoratore, sia l’azienda ne possono trarre. I principali riguardano il miglioramento dell’equilibrio fra vita professionale e privata (46%) e la crescita della motivazione e del coinvolgimento dei dipendenti (35%) oltre al miglioramento della produttività – stimato al 15% circa nel 2019 -, la riduzione dell’assenteismo e la diminuzione dei costi per gli spazi fisici. Tra le criticità figurano la gestione delle urgenze (è un ostacolo per il 34% dei responsabili), l’utilizzo delle tecnologie (32%), la pianificazione delle attività (26%). Secondo gli smart worker (sic!), la prima difficoltà riscontrata è la percezione di isolamento (35%), seguita dalle distrazioni esterne (21%), dai problemi di comunicazione e collaborazione virtuale (11%) e dalla barriera tecnologica (11%). Molti si lamentano della scarsa interazione con il team di lavoro e rimpiangono quel momento in cui ci si riunisce con i colleghi, anche semplicemente per un caffè o per chiacchierare sul lavoro svolto. Non solo. Non avere orari significa che gli altri si sentiranno in diritto di chiamarvi in ogni momento della giornata, o peggio della serata. Week-end compreso. Spesso, poi, sono proprio i datori di lavoro a essere scettici sul lavoro da casa, perché non possono tenere sotto controllo i loro dipendenti.

Va precisato che nella legge sul Lavoro agile è specificato che l’accordo individuale per l’applicazione dello smart working è tra due parti, volontario e reversibile, quindi non si può parlare di perdita di potere contrattuale da parte del lavoratore. In qualunque momento sia il dipendente, sia l’azienda possono rescindere l’accordo. Nel caso in cui la rescissione avviene da parte del datore di lavoro, deve esserci un preavviso per dare la possibilità al lavoratore di riorganizzare le proprie attività. Detto questo, qualche dubbio veleggia nell’aere: chi paga il maggior consumo di corrente elettrica da parte del lavoratore? Cosa rispondere a chi ti chiede, di sabato o domenica, oppure oltre l’orario canonico: “Scusa, stai davanti al computer? Mi vedresti un attimo sta cosa?”.

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