IL MONDO IN NEGATIVO FRA CRISI E GUERRE

Nel generale panorama sfavorevole non mancano, comunque, motivi di compiacimento come la ratifica da parte di 175 paesi dell’accordo sul clima e la fine di una quarantennale guerra civile in Colombia  In un bilancio del trascorso 2016 l’uscita della Gran Bretagna, decisa dal referendum di giugno, è un avvenimento traumatico per l’Europa. Il costo economico per Londra della Brexit è ancora difficilmente valutabile (si parla di 1400 miliardi di euro) ma già si preannuncia negativo soprattutto perché Bruxelles è decisa a non fare sconti nel negoziato che sarà lungo e aspro. Il costo politico, con le dimissioni del premier David Cameron, è già evidente: fremiti di becero nazionalismo hanno appunto favorito l’abbandono dell’ Unione e orientamenti del governo diversi dal passato.

È stato, lo strappo inglese, un sintomo preoccupante che si accompagna con rigurgiti di più o meno nascosto neonazismo in Germania, mentre in Austria si arriva agli esiti che abbiamo visto per le presidenziali, in Francia la leader di estrema destra Marine Le Pen è data come protagonista del ballottaggio per l’Eliseo, in Ungheria si assiste alla politica più reazionaria di tutta la Ue, in Polonia si arriva al limite del regime autoritario e un po’ dappertutto crescono i populisti-fascisti.

A tutto questo corrisponde la scarsa solidarietà di una parte dei membri dell’Unione verso i profughi dalle aree di guerra e di violenza, materializzatasi in barriere e muri, o nel rifiuto dell’accoglienza, anche se sanzionata da accordi formali di ripartizione, peraltro disattesi. Mentre si continua a rincorrere una austerità (cui pone qualche limite l’azione della Banca centrale, guidata da Mario Draghi) che non favorisce la crescita, come da tempo l’Italia va denunciando e che spiega il rifiuto di Roma, attraverso una clamorosa astensione, di approvare il bilancio comunitario.

Perché, fra l’altro, il problema dei profughi si collega all’altro grande dramma che in Medio Oriente coinvolge direttamente Siria e Irak, indirettamente i paesi confinanti e, attraverso il terrorismo, si estende all’Africa settentrionale e sub sahariana, al Corno d’Africa, alla penisola arabica con lo Yemen. Oggi è in atto una operazione di riconquista dei territori irakeni occupati due anni fa dal cosiddetto stato islamico, con operazioni militari che stanno faticosamente erodendo il potere dei terroristi, sia in Siria-Irak che in Libia. Ma ciò non elimina il rischio di attentati e di stragi, in Europa, negli Stati Uniti, in Irak, Afghanistan, Pakistan, Turchia, Bangladesh; e non solo. Con l’aggiunta di una feroce guerra di sterminio che il governo siriano, complice la Russia, sta attuando contro i ribelli, specie nella città martire di Aleppo, dove si radono al suolo scuole e ospedali e si uccidono senza pietà bambini, malati e personale sanitario.

In quella stessa area cresce il problema Turchia. Il fallito colpo di stato della scorsa estate (definito dal premier Recep Tayyip Erdogan “un dono di Dio”) ha portato a un durissimo giro di vite contro ogni tipo di opposizione, parlamentare, economica, giornalistica, intellettuale, militare, con oltre centomila persone arrestate e altre diecine di migliaia espulse dal lavoro, con la sospensione dei diritti umani e la proposta del ripristino della pena di morte. Nello stesso tempo si profila l’ipotesi di un mutamento di alleanze con il rischio di crisi all’interno della Nato, di cui la Turchia fa parte, e di intese con la Russia in funzione anti occidentale. Inoltre si raffreddano i rapporti con l’Unione Europea, sia per l’ammissione da parte di quest’ultima del genocidio degli armeni di un secolo fa, sia per la condanna dell’attuale stretta autoritaria. Infine si profilano gli elementi di un contrasto maggiore con i curdi, protagonisti vincenti dell’offensiva contro il califfato e che stanno creando di fatto un loro stato che, domani, darebbe molta ombra ad Ankara e costituirebbe una bomba a scoppio ritardato da aggiungere alle già presenti crisi del Medio Oriente.

Sull’intera politica americana dell’area si stende l’ombra delle non chiare intenzioni del 45esimo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Eletto a sorpresa contro Hillary Clinton – sino all’ultimo data per favorita e che ha ottenuto due milioni di voti popolari in più -, gli si attribuisce un programma ultraliberista e protezionista (ha dichiarato che denuncerà tutti i trattati di libero scambio) che lascerebbe poco spazio alla tolleranza verso gli immigrati (si calcolano in alcuni milioni i clandestini negli Usa) e le minoranze religiose. Ha il vantaggio che Camera e Senato sono controllati da una maggioranza repubblicana, di netto stampo conservatore, mentre è ancora poco chiaro in quale direzione si muoverà la politica estera. L’ascesa di Trump non è stata salutata con favore dall’opinione europea.

Nel generale panorama negativo non mancano comunque motivi di compiacimento, come la ratifica da parte di 175 paesi dell’accordo sul clima, che nel giro di qualche decennio permetterebbe al pianeta di respirare, è il caso di dirlo, aria più pulita. E ci si può anche rallegrare per la fine di una quarantennale guerra civile in Colombia, con l’attribuzione del Nobel per la pace al presidente Juan Manuel Santos, tenace protagonista degli accordi. Tenendo infine presente il messaggio di fratellanza umana e spirituale che è stato inviato al mondo dall’anno giubilare della Misericordia, anche attraverso molteplici gesti di papa Francesco che si è speso, e ha invitato i cristiani a spendersi, nella solidarietà ai poveri, nella tolleranza verso “l’altro”, nel cammino della ritrovata comunione fra quanti credono in Cristo.