IL DOLORE DELLA PORTA ACCANTO
Quand’ero bambino si sapeva tutto di tutti. Se c’era un furto in un appartamento vicino la voce correva veloce per le strade, la gente si fermava per sapere: quando è stato, come è stato, quanto hanno rubato, c’è qualcuno che ha visto i ladri? La morte poi era un avvenimento corale, si chiudeva il portone in segno di lutto, si faceva silenzio, tacevano le grida dei bambini e tutti per rispetto al defunto salivano le scale taciturni come se quel rumore o voce o passo pesante disturbassero il defunto. Durante la guerra, poi, c’era una solidarietà – forse obbligata – tra famiglie e famiglie, vivere sotto i bombardamenti, trovarsi nel rifugio di notte, ascoltare stupefatti il rumore degli aerei, sostare le ore davanti a una fontana per riempire un fiasco, tutto questo accomunava uomini e donne, e la fame o il pericolo di un’incursione erano rischi da condividere.
Si viveva e si moriva “in comunità” e anche gli egoismi erano mitigati dal comune destino che sovrastava tutti. Si prestava l’olio, il pane o lo zucchero e se qualcuno si ammalava c’era un accorrere di amici e conoscenti: che serve, che possiamo fare, di che avete bisogno. E non c’era sofferenza o pericolo o paura che non fossero sentite come minaccia di tutti. Era un’Italia povera e provinciale, autarchica e arretrata non ancora toccata dal piano Marshall.
Oggi, in un’epoca di relativo benessere anche il dolore ha perso la sua sacralità, è diventato un dolore individuale, egoistico, privato e nessuno si cura più della sofferenza del vicino di casa. In un tempo in cui i social impazzano, e le vicende private – gli amori, i divorzi, le separazioni, i flirt, i successi e insuccessi – sono messi in piazza e intasano i cellulari, sappiamo tanto di attrici e calciatori ma non sappiamo più come batte il cuore di chi ci vive accanto. Anche la nostra carità è diventata universale, quasi anonima, doniamo magari per l’asilo del Bangladesh ma ignoriamo chi abita – o soffre – nella casa accanto. E anche se doniamo, doniamo genericamente, a largo spettro. Forse perché aprire il computer e cercare l’iban di qualche associazione benefica – solo mezzo minuto da perdere – non ci coinvolge emotivamente, sono dolori remoti, malattie che non ci commuovono, drammi lontani che non hanno echi nei nostri cuori. Ci basta un clic sul computer e questa offerta mette la coscienza in pace e acquieta il sottile disagio di uomini della civiltà del benessere.
Interessarsi invece del vicino di casa, di ufficio, di azienda, di associazione, di condominio tocca troppo le corde del nostro animo mentre un bollettino da riempire ci esime da ogni partecipazione emotiva, la nostra coscienza si appaga con questa firma e non esige la nostra umana partecipazione, la condivisione di una disgrazia, di un lutto, di un fallimento, di una povertà dissimulata per vergogna, dove spesso servono più parole che soldi, più tenerezza che assegni. Sogniamo di diventare cittadini del mondo, lo diventeremo certamente, siamo già “on the road” ma non possiamo mai dimenticare di essere anche responsabili del nostro piccolo orto. C’è un villaggio globale ma anche la piccola cerchia della nostra vita, il “villaggio umano” dove si consumano i veri drammi della nostra esistenza, la sofferenza, il fallimento, la fede e i dubbi di fede, la malattia, la solitudine e anche la morte.
Ho raccontato una volta su questo giornale un fatto di cui sono stato testimone: un uomo che ignorava che al piano di sotto era scomparsa per un infarto improvviso una donna, viveva nel suo piccolo cerchio familiare e solo dopo mesi s’era accorto che qualcuno non rispondeva più all’appello.
Dobbiamo aprire i nostri orizzonti, affacciarci al balcone per capire dove batte la vita. Così anche la carità sarà più preziosa se saprà chinarsi su quello che in un tempo – molto remoto – si chiamava “prossimo”.