IL COMMERCIO DI MORTE DEGLI STRUMENTI DI GUERRA
Aveva ragione Giovanni Paolo II nel definire la guerra “un’avventura senza ritorno”. Con sgomento ci si chiede come sarà possibile, nella attuale situazione del mondo, far tacere il rumore delle armi sui numerosi palcoscenici nei quali si recita il dramma della distruzione e della morte. Metà dell’Africa subsahariana, dal Sudan al Mali, dal centrafrica alla Nigeria, dalla Somalia al Congo. Conflitti sulla fascia mediterranea, con la Libia, Israele e la Palestina attorno a Gaza, l’Egitto apparentemente acquetato e, a est, la Siria in fiamme, insieme con l’Irak a pezzi e la rapida espansione della minaccia del califfato islamico, ormai distintosi per la ferocia dei suoi comportamenti.
Anche l’Unione Europea è lambita, ai confini orientali, dallo scontro interno all’Ukraina, fomentato dagli appetiti della politica di Mosca, che vede crollare un suo disegno di ripristino dei confini della scomparsa Unione Sovietica. Senza contare il tintinnìo di sciabole nell’estremo Oriente, dove la contesa fra la Cina e i paesi confinanti – una buona mezza dozzina di stati sovrani – è alimentata dal desiderio di controllare con tutti i mezzi (comprese le minacce belliche) la grande via di scambio costituita dall’Oceano Pacifico, dove passa il 50 per cento dei traffici mondiali. Portando al paradosso di una inedita intesa fra i nemici di ieri, Stati Uniti e Vietnam.
Tutto questo ha un nome e una concausa: il commercio delle armi, che assicura lucrosi redditi e ha registrato negli ultimi tempi un rialzo spettacolare, giungendo a una cifra d’affari globale pari a 1462 miliardi di dollari. Naturalmente si tratta di spese da aggiungere agli arsenali già esistenti, in grado, si dice, di distruggere l’umanità decine di volte.
In un discorso terra terra partiamo dal banale esempio delle mine antiuomo, il cui bilancio delle vittime è, ogni anno, di 15mila morti o feriti (un terzo sono bambini). Con fatica si stanno raggiungendo accordi a livello internazionale per bandirle come mezzi di guerra. Soltanto quest’anno, per esempio, gli Stati Uniti si sono impegnati a non produrne più, anche se nei suoi arsenali ce ne sono ben dieci milioni, che non ha promesso di non impiegare, e in quelli di sessanta altri paesi se ne stivano oltre duecento milioni. Pronte a essere usate se trentasei stati (fra cui Cina, India, Russia, le due Coree, il Pakistan, che rappresentano cioè due miliardi e seicento milioni di abitanti) non sembrano disposti a sottoscrivere la rinuncia. E per 2-300mila ordigni messi fuori uso ogni anno, se ne fabbricano cinque milioni (con un contributo italiano che fornisce eccellenti prodotti).
Alla terza conferenza internazionale per la messa al bando delle mine (sia a terra che a grappolo), svoltasi a Maputo in Mozambico dal 23 al 27 giugno scorsi, papa Francesco aveva fatto giungere, attraverso il segretario di stato Pietro Parolin, un accorato messaggio. Diceva, fra le altre cose: “La vera ricchezza non è quella del denaro, la vera forza non è quella delle armi. La vera felicità è nell’amore, nella condivisione e nella generosità del cuore… Vogliamo veramente la sicurezza, la stabilità e la pace? Allora riduciamo i nostri stoccaggi di armi! Bandiamo le armi che non hanno ragion d’essere in una società umana e investiamo nell’educazione, nella salute, nella salvaguardia del nostro pianeta, nella costruzione di società più solidali e fraterne con le loro diversità, che sono un arricchimento”.
Per ironia della sorte la conferenza si apriva pochi giorni dopo la chiusura, a Villepinte presso Parigi, del “salone mondiale” del commercio delle armi. 1500 aziende di 57 paesi hanno messo in mostra gli ultimi sofisticati sistemi di quella che un economista austriaco, fra i maggiori del secolo scorso, Joseph Schumpeter, chiamava – forse con amara ironia – la “distruzione creatrice”, in cui è difficile dire se l’accento sia posto sul sostantivo o sul qualificativo.
Con l’amara costatazione che all’esposizione francese ha partecipato anche il Giappone, ultimo stato del mondo ad avere una costituzione pacifista. Alla quale ha rinunciato lo scorso aprile, sembra con larga approvazione popolare.