ABBIAMO TOCCATO IL FONDO…

il 50esimo rapporto Censis
By Antonio Andreucci
Pubblicato il 1 Febbraio 2017

A leggere di dati del Centro studi di investimenti sociali sull’Italia prende un nodo alla gola, un senso di scoramento, verrebbe voglia di lasciare tutto e scappare… Il corpo sociale si sente rancorosamente vittima di un sistema di casta e le istituzioni sono inermi, perché vuote o occupate da altri poteri

“La funzione delle istituzioni come cerniera tra mondo politico e corpo sociale è in crisi; la società continua a funzionare nel quotidiano, rumina e metabolizza gli input esterni, cicatrizza le ferite più profonde» e ancora: “I figli si scoprono più poveri dei genitori”. A leggere il 50/o rapporto del Centro studi di investimenti sociali (Censis) sull’Italia prende un nodo alla gola, un senso di scoramento; verrebbe voglia di lasciare tutto e scappare, di andare a…dove? In un posto qualsiasi diverso da questo. Verrebbe voglia, ma non si può e non si deve. Ogni periodo storico ha le sue caratterizzazioni e gli italiani hanno dimostrato di saper dare il meglio di loro stessi proprio quando sembra che sia tutto perso e non ci sia possibilità di salvezza. Pertanto, se il rapporto indica che si è toccato il fondo, non c’è che da sperare nella risalita. Per farlo, occorre conoscere bene quali sono i punti deboli che ci caratterizzano, in modo da studiare metodologie di intervento capaci di evitare che la nave affondi. Un compito che spetta principalmente alle istituzioni, nei cui confronti si registra un crescendo di sfiducia, un grande distacco tra potere politico e popolo. Il corpo sociale si sente rancorosamente vittima di un sistema di casta; il mondo politico si arrocca sulla necessità di un rilancio dell’etica e della moralità pubblica, le istituzioni (per crisi della propria consistenza, anche valoriale) non riescono più a svolgere il loro ruolo di cerniera tra dinamica politica e dinamica sociale. L’analisi del Censis evidenzia come per tutta la nostra storia (nel periodo risorgimentale, nella fase pre-fascista, nel ventennio fascista, nell’immediato dopoguerra) siano state la potenza e l’alta qualità delle istituzioni a fare la sostanza unitaria del paese: “Ma oggi le istituzioni sono inermi, perché vuote o occupate da altri poteri”.

Un passo indietro non indifferente. Siamo passati dal periodo in cui si avvertiva dentro di noi una fiducia nel futuro, accompagnata da azioni che poi realmente hanno prodotto benessere, a un’epoca in cui riteniamo di poter vivere una realtà simile a quella di paesi che stanno meglio di noi (frutto anche della globalizzazione). Ma si tratta solo di un’illusione, se è vero che, carte alla mano, questa generazione – detta dei “millennial” – ha mezzi inferiori a quella dei padri. Per la prima volta i figli si trovano a essere più poveri dei genitori. Infatti, hanno un reddito inferiore del 15,1 per cento rispetto alla media dei cittadini e una ricchezza familiare che, per i nuclei under 35, è addirittura quasi la metà della media (-41,2%). Rispetto ai coetanei del 1990, i giovani di oggi hanno un reddito inferiore del 26,5% mentre per gli over 65 è aumentato del 24,3%. Il reddito medio da pensione è salito del 5,3% (da 14.7121 a 17.040 euro tra il 2008 e il 2014 e 4,1 milioni di pensionati hanno aiutato economicamente gli altri membri della famiglia!

Il boom dei voucher – 277 milioni di contratti stipulati tra il 2008 e il 2015 e i 70 milioni di nuovi voucher emessi nei primi sei mesi del 2016 – sta a significare che la forte domanda di flessibilità e l’abbattimento dei costi alimentano l’area delle professioni non qualificate e del mercato dei “lavoretti”. In queste condizioni è ovvio che non solo si ha paura di mettere su famiglia, ma vi è anche una contrazione delle nascite che, infatti, sono al minimo storico. Lo dimostra l’andamento demografico: diminuisce la popolazione (nel 2015 le nascite sono state 485.780, il numero più basso dall’Unità d’Italia a oggi), la fecondità si è ridotta a 1,35 figli per donna, gli anziani rappresentano il 22% della popolazione e i minori il 16,5%. Come dire: senza certezza economica non si mette su famiglia. Stando così le cose, non c’è da meravigliarsi se l’italiano impoverito e sfiduciato “allarga” i propri orizzonti attraverso un mezzo tutto sommato economico come il web dove l’utenza ha raggiunto il 73,7% (addirittura il 95,9% tra gli under 30). Si chatta con tutti, a basso costo, cercando – e spessissimo non trovando – quella umanità che solo in contatto diretto può dare. La rete viene usata anche per informarsi, guardare film o partite di calcio, prenotare viaggi e vacanze, acquistare beni, per svolgere operazioni bancarie e per entrare in contatto con le amministrazioni pubbliche. Anche per informarsi: se il mezzo principale restano i telegiornali (63%), al secondo posto figura Facebook (35,5%), seguito dai giornali radio (24,7%), mentre sono in caduta libera i giornali (18,8%). Tutte attività che, come si nota, non necessitano di un contatto diretto con il prossimo. Lo scetticismo invade anche il settore del risparmio, dove prende sempre più consistenza il vecchio metodo di mettere i soldi sotto al materasso, cioè tenere in casa denaro contante, senza investirlo in azioni o lasciarlo sul conto corrente (soprattutto dopo la possibilità data al fisco di controllare mese per mese gli andamenti dei conti correnti). Chi ha la fortuna di poter mettere qualcosa da parte non investe sul futuro e le aspettative dei nostri connazionali continuano a essere negative o piatte, in attesa di tempi migliori. Si spiega con questo senso di insicurezza l’aumento dei flussi di cash, un fenomeno che dal 2007 – anno in cui iniziò questa crisi che appare infinita – ha visto l’accumulo di contante arrivare a 114,3 miliardi di euro, una cifra superiore al Prodotto interno lordo di una nazione come l’Ungheria.

Il sociologo Giuseppe De Rita, che del Censis è il presidente, paragona questo comportamento dei nostri connazionali a un “rintanamento” della politica e del corpo sociale, due soggetti che ormai non comunicano più tra di loro, “coltivando il proprio destino in una sfida di reciproche delegittimazioni, prevalentemente mediatiche e intrise di rancoroso narcisismo”. In mezzo, il cittadino inerme, che si richiude sempre più in se stesso, sperando che prima o poi qualcosa cambi. Più prima che poi e in meglio, ovviamente.

 

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