I RISCHI DI UNA SVOLTA
La sintesi più efficace di quello che è accaduto, e sta accadendo, nella politica italiana nelle ultime settimane l’hanno fatta i corrispondenti da Roma di tre autorevoli quotidiani europei. Lizzy Davies (dell’inglese The Guardian ) ha osservato ironica: “Come sono ossequiosi nel linguaggio i politici italiani quando devono mettere i loro colleghi alla porta”. Pierre de Guasquet (del francese Les Echos) è rimasto soprattutto colpito da come “In mezz’ora il capo del principale partito ha licenziato in diretta il capo del governo del suo stesso partito”. Sarcastico, Paolo Ordaz (dello spagnolo El Pais) ha detto che “Il centrosinistra italiano non ha necessità di nemici. Bastano e avanzano i suoi dirigenti”. Partito per battere ogni primato nel tempo di soluzione di una crisi di governo; nella riduzione del numero dei ministri e nell’audacia e concretezza del programma (da realizzare entro il 2018), Matteo Renzi, mentre scrivo, ha rallentato il passo. Ha infatti trovato meno facile del previsto soprattutto: a) combinare due diverse maggioranze parlamentari. Una Pd, Ncd e centristi per la fiducia alle camere e la vita del governo; e una “allargata” a Fi per la riforma della legge elettorale, e della carta costituzionale (abolizione del Senato seconda camera deliberante, e del titolo V della Carta sui rapporti tra poteri centrali e poteri territoriali). b) Mettere a punto un programma (operativo e non solo di intenzioni e di proclami) per combattere la grave crisi economica e sociale che stringe il paese da quattro anni, e rilanciare le sue strutture produttive (in particolare quelle industriali) e ridurre la disoccupazione, a partire da quella giovanile. Realizzare questi impegni appare difficile, e i risultati condizioneranno comunque la nascita e la durata del governo. La crisi in atto dal 2008, e la stagnazione (ormai ventennale) dello sviluppo economico e sociale hanno infatti radici soprattutto politiche e non solo economiche, o legate alla realtà e alle dinamiche negative dell’Euro e tecnocratiche dell’Unione Europea. Dunque l’uscita dalla crisi e dalla stagnazione più che da soluzioni tecniche (sulle quali, in via di principio almeno, vi è un largo accordo tra esperti e tra partiti) dipende dalla capacità politica del governo e della sua maggioranza di costruire il necessario consenso parlamentare, tra le parti sociali e nella consapevolezza attiva dei cittadini attorno alle misure necessarie: a partire dalla intelligente, ma reale e duratura, riduzione della spesa pubblica improduttiva, ma non solo. E in regime democratico – come ricorda il sociologo della politica Alessandro Pizzorno – “ci sono due metodi fondamentali grazie ai quali si può attuare il consenso. Uno è quello di ottenerlo attuando programmi. L’altro è quello di ottenerlo elargendo favori”. Cioè, in questo caso, con l’uso mirato della spesa a beneficio di settori, più o meno ampi, del corpo sociale, ma senza vantaggi, o pochissimi, a tutela dell’interesse generale. Come è avvenuto spesso in passato in Italia, ma non solo. E come qualche mossa e qualche (pur generica) proposta di Renzi ha adombrato.
Allo stato delle cose, dunque, dobbiamo augurarci che nonostante i modi con cui è partito e si è sviluppato, il tentativo del sindaco di Firenze abbia successo. Perché nella difficile situazione interna e internazionale attuale (c’è il rischio di una crisi anche nei paesi dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa che hanno conosciuto nell’ultimo ventennio un rapido sviluppo, e favorito la tenuta di quelli avanzati dell’Europa e dell’America del Nord) la vita politica, civile, sociale, istituzionale ed economica di un paese democratico come l’Italia non tollera il vuoto di iniziative adeguate. Perché in assenza o nel fallimento di iniziative che, comunque, possono essere orientate e controllate da (il più possibile) concordi maggioranze parlamentari, si rischia che il vuoto venga colmato da altre, che potrebbero risolversi in pericolosissimi, per tutti, salti nel buio.