I percorsi dell’ingiustizia. Contro di essi una donna, che da sei anni veste di nero, si sta battendo per ottenere giustizia, che non gli restituirebbe il suo Niki, ma che potrebbe evitare ad altre madri lo strazio che ha distrutto la sua famiglia. Il 19 giugno 2008 la signora Ornella Gemini, di Avezzano, viene a sapere che suo figlio, Niki Aprile Gatti, è stato arrestato. Niki è un giovane (Ornella lo considerava ancora un ragazzo) di 27 anni, esperto di informatica presso una società dove ha trovato lavoro subito dopo il diploma. Abita a San Marino, dove ha sede la società in cui lavora.
La mattina del 19 giugno Niki viene arrestato con l’accusa di frode informatica; viene rinchiuso nel supercarcere di Sollicciano, mentre altri due arrestati nella stessa inchiesta vengono portati in quello più “umano” di Rimini. Quattro giorni dopo il suo arresto è trovato morto nel bagno: suicidio, diranno i magistrati inquirenti. Il giorno del suo arresto Niki chiede alla direzione del carcere di stare con italiani, invece è messo in cella con due extracomunitari detenuti per reati vari e comunque ad alta sorveglianza, quindi privi di stringhe alle scarpe e di cinte. Niki, invece, è lasciato con i lacci alle scarpe come se gli altri due potessero non approfittare della circostanza. Queste le prime stranezze a cui se ne aggiungeranno altre ancora che rendono la versione della morte di Niki quantomeno dubbia. Come la storia del telegramma che gli viene recapitato in carcere all’indomani del suo arresto con il quale (all’insaputa dei genitori) qualcuno gli intima perentoriamente di cambiare avvocato; cosa che lui fa pensando che sia la madre a consigliarglielo. Come dare credito alla versione del suicidio con il laccio della scarpa lungo 20 cm con il quale si sarebbe legato alla finestra del bagno e si sarebbe tolto la vita: lui che pesava 90 kg ed era altro 1,90? Come non avere dubbi quando alla madre viene detto, in prima versione, che si era suicidato con ritagli del suo jeans. Aveva visto, di sfuggita la madre, tre giorni dopo il suo arresto al palazzo di giustizia di Firenze, dove era stato condotto dal carcere per l’udienza di convalida dell’arresto. Ornella aveva cercato di avvicinarlo ma la polizia penitenziaria l’aveva allontanata. Lui sapeva che la madre avrebbe fatto l’impossibile per tirarlo fuori da quella situazione, perché allora si sarebbe suicidato dopo soli quattro giorni di carcere e senza lasciare un biglietto alla madre con la quale era legato, lui figlio unico, in maniera quasi morbosa? Perché, nonostante il medico legale avesse riscontrato una piccola ecchimosi rotonda su un avambraccio, non è stata disposta la perizia tossicologica? Perché gli altri arrestati (18 in tutto) si sono avvalsi della facoltà di non rispondere ai magistrati titolari dell’inchiesta e sono stati scarcerati dopo pochi giorni e lui che aveva deciso di collaborare, perché non aveva nulla da temere, ha perso la vita in carcere? Perché il suo computer, che non è stato sequestrato dalla magistratura, è scomparso? Perché quando i genitori sono andati nel suo appartamento a San Marino, l’hanno trovato completamente vuoto?
I perché potrebbero continuare occupando tre o quattro pagine del nostro giornale. Ci fermiamo qui con un’ultima domanda: perché dopo quattro interrogazioni parlamentari nessuno risponde alle domande di questa madre. Dimenticavo di dirvi che dopo sei anni l’inchiesta non è stata ancora chiusa e nessuno ancora è stato processato e che il blog che Ornella curava per dare voce al suo dolore è stato oscurato da ignoti. Tutte, ma proprio tutte, le sue denunce e le sue richieste, sono state archiviate.