I GOVERNI RIUSCIRANNO A STANARE GLI EVASORI?
Sembrava una promessa rituale fatta per contentare e illudere l’opinione pubblica: “Nessun rifugio per chi froda il fisco”. Era stata lanciata alcuni anni fa lasciando, all’apparenza, le cose come erano prima. Ma da qualche mese si assiste a una accelerazione della storia che ai grandi evasori (si parla di centinaia di miliardi di dollari e di euro) fa venire i brividi.
Nell’aprile di quest’anno ha cominciato il Fondo mondiale sulla trasparenza con un rapporto che denunciava l’enormità del furto fiscale. Seguiva a ruota un documento del consorzio dei giornalisti di investigazione, che aveva scoperto (ma senza poter rivelare nomi e cognomi a causa delle norme sulla privacy) la rete di frodatori mondiali delle tasse. Il 20 aprile il G20 (l’assemblea dei paesi sviluppati) esaminava seriamente il problema, che veniva successivamente analizzato agli inizi di maggio dal G7 (le maggiori economie mondiali, fra le quali l’Italia), poi a Mosca dal forum mondiale delle amministrazioni fiscali e alla fine del mese in un vertice europeo a Bruxelles.
Poco dopo Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia rivelavano di essere in possesso di un elenco ancora più corposo di quello dei giornalisti, i quali potevano, a questo punto, cominciare a fare nomi. Infine a metà giugno in Irlanda, il G8 (i sette più la Russia) hanno discusso della “grande delinquenza finanziaria internazionale” per giungere a una serie di accordi con paesi – spesso reticenti – al fine di smantellare la cosiddetta “ottimizzazione fiscale”, cioè la serie di passaggi e operazioni destinati a far finire i patrimoni là dove si pagassero minori imposte, e giungere a uno scambio automatico dei dati finanziari, a partire dal 2015. Vale a dire la comunicazione immediata alla nazione di appartenenza di un’apertura di conto da parte di un cittadino di un altro stato. Senza possibilità di rifugiarsi dietro prestanome o in quella “finanza dell’ombra” – il cui ammontare è stato calcolato attorno ai 2600 miliardi di dollari – contro la quale sta combattendo il governo americano, perché portatrice di un “rischio sistemico”, largamente colpevole, per intenderci, dell’attuale, negativa situazione finanziaria mondiale.
E a questo proposito è stato tempestivamente lucido, e per molti versi anticipatore, papa Francesco, che in un discorso del 12 marzo aveva parlato di “dittatura dell’economia senza volto”, responsabile di una crisi economica “negazione del primato dell’uomo” e sollecitatrice del “feticismo del denaro”. Per il pontefice precarietà, paura, disperazione, decadimento della gioia di vivere, crescita della violenza e delle indecenze erano appunto risultati dell’“accettazione del dominio dei soldi sulle nostre persone e sulle nostre società”, diventandone i “nuovi idoli”. E il santo padre metteva in luce le gravi deficienze nell’orientamento antropologico dell’economia, che voleva ridurre l’uomo a una sola necessità, il consumo, concludendo che “l’essere umano è considerato oggi come un bene di consumo che si può utilizzare e poi gettare”.
È certamente necessario che la necessità di un equo – sottolineiamo l’aggettivo – contributo fiscale sia condivisa dall’opinione pubblica, spesso reticente all’idea del pagamento delle tasse: ma se si riflette che l’evasione (spesso attuata da stormi di specialisti che profittano dei vuoti delle leggi) comporta una perdita globale pari a mille miliardi di euro all’anno, corrispondente al prodotto interno lordo di metà Unione Europea, allora si comprende come i governi – possiamo forse aggiungere: in ritardo – siano interessati a reprimere “la grande delinquenza finanziaria internazionale”. Ci riusciranno?