GLI ULTIMI ITALIANI?

Cause e scenari dello spopolamento
By antonio sanfrancesco
Pubblicato il 4 Giugno 2022

“Nel nostro Paese – sostiene lo statistico Roberto Volpi – la denatalità è in ascesa dal 1974, di coppie se ne formano poche e tardi, la famiglia è in declino. Ci avviamo a un futuro con pochi giovani e molti anziani”

Il tempo sta per scadere. Abbiamo 10, forse 15 anni, per evitare che l’Italia porti a compimento il suicidio demografico che si prepara da una quarantina d’anni, di cui nessuno ne parla e che ora si sta velocemente avvicinando all’ora X. Allarmismo? Esagerazioni? No, se chi lo sostiene è uno statistico serio e preparato come Roberto Volpi che maneggia questa materia da una vita studiando l’andamento, le caratteristiche e le proiezioni future del Paese. Volpi ha diretto uffici pubblici di statistica, progettato il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, scritto svariati saggi. Quello appena edito da Solferino s’intitola Gli ultimi italiani – Come si estingue un popolo.

In Italia – nota l’autore – per dare, in parole brutali, il polso della condizione demografica, si muore ma non si nasce. Si muore perché siamo una popolazione vecchia, e ora anche per il Covid-19, che ovviamente aggrava la situazione, non si nasce per lo stesso motivo e perché quel poco che c’è di giovane in Italia di figli non ne fa”.

La parte interessante, però, non è tanto quella sui numeri, pur importantissimi, ma che in parte già conosciamo, ma gli scenari futuri che avrà il crollo demografico e lo spopolamento del territorio italiano, soprattutto al Sud.

Le previsioni non sono mai facili, a maggior ragione quando debbono prendere atto di una realtà che sfiora la catastrofe – spiega Volpi – e che nel 2070 la popolazione italiana faccia segnare 12,1 milioni di abitanti in meno rispetto al 2020 è un dato pressoché catastrofico non soltanto per la perdita di oltre il 20 per cento della popolazione in poco più di mezzo secolo ma per quella ancor più vertiginosa a cui quel dato sembra preludere. Già alla metà del secolo, nel 2050, si avranno in Italia, in situazioni del tutto ordinarie, due morti per ogni nato, a contrassegnare una popolazione pressoché spenta dal punto di vista vitalistico-produttivo”.

Tra trent’anni, quando secondo l’Istat saremo 53 milioni, circa 6 meno di oggi, molte aree geografiche dell’Italia saranno praticamente un deserto. “Intere piccole regioni – ragiona Volpi – perderanno oltre un quarto e fino a un terzo degli abitanti e ogni vitalità demografica già entro i prossimi quattro-cinque decenni: il Molise e la Basilicata al Sud, l’Umbria al centro, il Friuli e la Valle d’Aosta al nord. Ma la stessa sorte toccherà alla Liguria e alla Sardegna, appena un milione e mezzo di abitanti ciascuno, vecchi se non vecchissimi, quest’ultima letteralmente in caduta libera”.

La parte forse ancora più incisiva del saggio, certamente quella che farà più discutere, riguarda però le origini e le ragioni del declino accelerato della popolazione italiana, del fatto che non si facciano più figli.

Volpi non crede che le difficoltà dei giovani a trovare un lavoro e una stabilità economica siano tra le cause principali del fatto che non si fanno più figli. Sarebbe, sostiene, un errore di economicismo marxista.

Le cause sono di natura culturale e vanno ricercate nel sessantotto che innesca la legislazione degli anni settanta che cambia radicalmente la società italiana: “Avviene letteralmente di tutto in quei soli dieci anni – scrive Volpi – la liberalizzazione della pillola contraccettiva, che dal 1976, dopo una decina d’anni di stazionamento vincolato nelle farmacie, diventa disponibile anche senza prescrizione medica; l’introduzione della legislazione sul divorzio (1970) e la secca sconfitta al referendum (1974) dei sostenitori del sì all’abrogazione; il nuovo diritto di famiglia (1975) che sancisce, tra l’altro, la piena parità tra i coniugi in generale e di fronte ai figli; e infine la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza (legge 194, del maggio 1978). Alla fine di questo decennio niente è più com’era prima: l’Italia ha colmato ogni tipo di gap con tutti gli altri paesi occidentali in queste materie”.

Per fare un paragone: nel 1963, su 420 mila matrimoni, 400 mila furono cattolici; nel 2019, questi erano meno della metà dei 184 mila totali.

Volpi ricorda l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, firmata nell’anno cruciale del 1968 e che sarà criticata anche all’interno della Chiesa cattolica. Per l’autore, papa Montini intuì la portata culturale e non solo strettamente religiosa del cambiamento in atto che l’enciclica non riuscì ad arginare: “Non si può dire che il Papa non avesse non solo fiutato ma compreso fino in fondo il vento che spirava sull’Italia, giacché proprio questo sarebbe successo, che matrimonio e famiglia sarebbero usciti dal decennio 1968-1978 fortemente ridimensionati, e si dica pure debilitati; né si può negare che matrimonio e famiglia rappresentassero elementi di fondo della dottrina della Chiesa ma anche, e a tutti gli effetti, costitutivi della società italiana. Il punto è che quel vento semplicemente non poteva essere arrestato o deviato e neppure smorzato dall’Huma-nae Vitae, che arrivava quando ormai esso stava soffiando in lungo e in largo”.

Se gli anni settanta costituiscono uno spartiacque decisivo, la questione culturale del non volere figli e non sposarsi si prolunga all’oggi in quella che Volpi definisce “la fatica del figlio e il tornaconto del poco” che percorre tutta la società italiana: “Abbiamo fatto di tutto, la nostra società ha fatto di tutto, per rendere i bambini faticosi, pressoché impossibili da gestire nelle loro esigenze, bisogni, necessità sempre crescenti, senza dedicarsi a loro anima e corpo, insomma ingombranti al massimo grado, e dunque anche irritanti, se non proprio antipatici. Non ce lo diciamo, abbiamo paura a esplicitare un tale pensiero, che non confideremmo ad alcuni pur se trova nella realtà un’evidenza che è sotto gli occhi di tutti: molto meglio, più semplice e comodo, un animale da compagnia di un figlio. La sostituzione dei figli, specialmente del secondo figlio, avviene sempre di più a opera di un cane o di un gatto”.

L’Italia sempre più divisa

Una delle conseguenze (già in atto) della denatalità è lo spopolamento delle aree interne. Spiega Volpi, numeri alla mano, la fotografia di oggi e il trend dei prossimi anni: “Tra le province di Monza e di Milano e quelle di Nuoro e Oristano c’è un rapporto in termini di densità di abitanti di 50 a 1, destinato a crescere fino a 100 a 1. Là dove in certe zone della Sardegna (e della Basilicata, del Molise e di alcune province di altre regioni, anche del Centro e del Nord, come la Toscana e il Piemonte) c’è un solo abitante in altre della stessa estensione della Lombardia ce ne sono già oggi 50 e ce ne saranno domani 100 e forse persino di più. Quale problematica comune, assonanza, vicinanza potrà più esserci tra aree così distanti con un popolamento che in alcune sconfina nel deserto mentre in altre cerca di reggere, in parte riuscendoci, una densità da grande metropoli, se non addirittura da Bangladesh?”.

Le grandi differenze che già oggi ci sono, ad esempio, tra il Nord e il Mezzogiorno sono destinate ad aumentare e questo, spiega l’autore, “dividerà l’Italia, allontanerà le regioni e intere aree geografiche le une dalle altre rendendo più complessa e difficile ogni politica nazionale ogni direttrice, ogni programmazione di carattere generale”.

Il Mezzogiorno subisce uno spopolamento molto maggiore delle altre due macroregioni (centro e nord), tanto che perde da solo oltre 6,6 dei 12,1 milioni di abitanti persi complessivamente dall’Italia, ben oltre la metà del totale.

Cosa fare per invertire una tendenza che i numeri dicono irreversibile? Anzitutto, è la tesi di Volpi, riconoscere il problema, cosa che le classi dirigenti non fanno. Il caso più recente è il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che dell’argomento sostanzialmente si disinteressa.

L’Italia è destinata a una fine di consunzione spegnimento – sottolinea Volpi – forse quella fine è già segnata. Tutto fa pensare di sì. Ci sono dieci-quindici anni per capire se si può ancora rianimare una speranza. Ma se questa consapevolezza, come sembra, non alberga come dovrebbe, quanto sarebbe assolutamente necessario, nelle classi dirigenti del paese, a cominciare da quella politica, allora la partita è bella e chiusa”.

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