Da noi, in Abruzzo, queste cose non possono accadere. Gli abruzzesi han-no un senso dell’umanità e della solidarietà che non può consentire atti di barbarie come quella che si è manifestata lo scorso giugno a Latina, dove un bracciante agricolo, un migrante, dopo aver subito l’amputazione di un braccio da una macchina agricola, dai suoi datori di lavoro è stato scaricato dinanzi la propria abitazione agonizzante e quasi dissanguato. Quando sono arrivati i soccorsi per lui non c’era nulla da fare. Al suo fianco, dentro uno scatolone, chi lo aveva portato fin lì aveva depositato macabramente il braccio amputato.
Ma siamo proprio sicuri che questo gesto, che farebbe impallidire perfino i più convinti schiavisti e razzisti degli Stati allora confederati del nuovo mondo, non possa ripetersi, ancorché nelle forme meno barbariche di quelle di Latina, anche in Abruzzo? Esiste il caporalato agricolo e bracciantile nella nostra regione? Probabilmente sì. Forse i braccianti extracomunitari, impiegati nella raccolta dei pomodori o delle patate, non vengono dopati per aumentarne, fino allo stremo, le capacità fisiche. Forse le paghe sono leggermente superiori ai due euro all’ora. Forse le prestazioni al nero non hanno la stessa rilevanza statistica di altre zone agricole del Mezzogiorno. Forse. Ma sta di fatto che il caporalato – questo fenomeno abnorme basato sul primo livello di sfruttamento della mano d’opera bracciantile, prevalentemente rappresentata da migranti dei paesi del Magreb – esiste come fenomeno criminale, soprattutto nella zona del Fucino. Il caporalato stabilisce differenze di paga oraria fra lavoratori che pure svolgono la stessa mansione nei campi, facendo profitti sulla loro fatica e se qualcuno si ribella corre il rischio di non lavorare più. Con tutto quello che significa in termini di privazione esistenziali per sé, la moglie, i figli e, a volte, gli anziani genitori. Il caporale guadagna una percentuale sulla paga oraria del bracciante reclutato.
Poi c’è il secondo livello di sfruttamento, quello esercitato dal proprietario del fondo agricolo. Le statistiche ci dicono che i braccianti vengono, per lo più, pagati in nero, quindi senza alcun contratto e di conseguenza senza contributi previdenziali e assistenziali. Fatti lavorare in condizioni proibitive: caldo o freddo, pioggia o neve, non fanno alcuna differenza.
C’è anche un terzo livello di sfruttamento, quello relativo all’affitto degli alloggi. Alloggi, definizione iperbolica per “tracenne” umide, muffose e malsane che i cittadini preferiscono adibire a cantine o magazzini, oppure da dare in affitto agli ultimi della terra. In questi locali dormono in otto-nove. Basta fare un giro nei nostri paesi abruzzesi dove l’agricoltura è più sviluppata. Il sud di questi centri abitati, ormai, è popolato solo da migranti con le loro famiglie. Spesso anche il nord dei paesi. Case dove non batte mai il sole, a ridosso dei rilievi montuosi.
C’è poi un gradino ancora più infimo di sfruttamento, quello ideologico. Il migrante elettoralmente, per qualche forza politica, è utile a dimostrare che se in Italia non c’è lavoro è perché ci viene sottratto da quelli che arrivano inopinatamente nel nostro Paese a bordo di barconi. La domanda da porsi, invece, è: c’è ancora qualche italiano che se la sente di fare il manovale in edilizia o il bracciante nei campi a raccogliere ortaggi? La risposta sta tutta in quel “qualche”. Certo, qualcuno si trova ancora. Basterebbe?