GLI AROMI DELLE CLARISSE PER UNA PASQUA A TAVOLA
Il rito pasquale della gastronomia lo consumiamo quest’anno nell’antico monastero di Santa Maria Maddalena di Serra de’ Conti dove, dal 500 all’inizio del 900, le clarisse hanno fatto emergere, dalla loro cucina, sapori gastronomici e cadenze conviviali “conducibili ad un modello di certo proprio delle classi agiate, ma al tempo stesso anche riconducibile all’antica società rurale marchigiana”.
A guidarci è lo studio effettuato negli antichi documenti di dispensa da Tommaso Lucchetti, storico della cultura gastronomica e dell’arte conviviale, che ce ne descrive gli aromi nel libro La cucina delle monache edito da Il Lavoro Editoriale di Ancona. Nei menù pasquali, allora come oggi, non sono mai mancate le cresce, sia dolci (arricchite con mandorle) e sia al formaggio, quest’ultime particolarmente usate nella prima colazione di Pasqua accanto a salumi e uova benedette la cui “coccia” veniva bruciata sulla brace ardente. Altra presenza fissa è l’uovo, “magnifico simbolo – dice Lucchetti – di nascita e ciclicità, di risveglio alla vita, sintesi perfetta dello spirito della Pasqua come avvento di una nuova vita e della celebrazione della Resurrezione di Cristo”. Spesso le uova venivano colorate e questo accadeva pure nelle zone rurali.
Le clarisse di Serra de’ Conti rispettavano anche loro l’usanza ma con un espediente ornamentale consistente nello scrivere una lettera dentro un uovo, che non si poteva leggere se non si eliminava la scorza. Queste le istruzioni tramandateci: “Piglia un ovo, poi distempra alume di rocco con un poco di aceto; scriverai con questo liquore sopra la crosta dell’ovo quello che ti piace e fallo stare al sole gagliardo, che si seccaranno le lettere, poi metti l’ovo in acqua salsa per due giorni, alla fine levalo fuori e lascia che si asciughi all’ombra et asciutto fallo cuocere in acqua, tanto che venga duro, e le lettere saranno penetrate dentro del bianco dell’ovo, che si potranno leggere”. L’allume di rocca, con cui si tracciavano le iscrizioni ed i disegni segreti (da scoprire giocosamente a tavola man mano che si sbucciavano i gusci) era l’allume di potassio, sostanza usata in tintoria per la conciatura delle pelli e per la chiarificazione delle acque.
La colazione mattutina pasquale interrompeva il digiuno e l’astinenza dalla carne che duravano da 40 giorni iniziando il mercoledì delle ceneri. Il prodotto della gallina veniva utilizzato anche per profumate frittate preparate con le prime erbe primaverili da poco germogliate assieme alle teste degli agnelli macellati per l’occasione. Il pranzo della “Resurrezione” delle suore era formato da minestra, lesso, coratella d’agnello fritta, frittata con testa d’agnello e uova sode.
Il lavoro più grande era rappresentato dai dolci in quanto se ne confezionavano in grande quantità e di diverso tipo: torte (anche di farro), biscotti, pasticcini ed altre leccornie da regalare a personalità eminenti e non, amiche e solidali con il monastero. “In virtù delle forme in cui venivano modellate – sottolinea il ricercatore – queste raffinate creazioni di pasticceria diventavano, con minuziosi accorgimenti estetici, piccoli garbati esempi di arte applicata”. Tra i primi piatti la specialità era rappresentata dai tagliolini e, in occasione di cerimonie, la pasta era condita con ricotta, miele, zucchero, mandorle e pinoli. Buona fama godevano i mostaccioli preparati per la ricorrenza di Santa Maria Maddalena, il 22 luglio, a cui è intitolato il convento dell’anconetano. Inoltre, si preparavano, nonostante il caldo estivo, i buccellati – confezionati con massa del pane, olio, anici, farina, lievito, sale e un po’ di vino – il pan di spagna, le cotolette dall’ovo, i biscottini da zucchero.
Con la donazione dei dolci si ricambiavano i regali ricevuti dai contadini per la festa del monastero secondo un regolamento di dispensa che prevedeva tra l’altro: “A quelli di Serra si dà da bere, a quelli da fuori si dà da bere e da mangiare”.