FRA L’INDIA E L’EUROPA LE PROVE DI UNA NUOVA POLITICA

Fra aprile e maggio, in India e in Europa, è stato chiamato al voto un sesto dell’elettorato mondiale. In India, il paese, dopo la Cina, più popolato del mondo (un miliardo e 200 milioni di abitanti, 800 milioni di potenziali elettori  di cui il 66% è andato alle urne), ha stravinto il BJP, Partito del popolo indiano, attorno al personaggio carismatico di Narendra Modi, governatore dello stato del Gujarat. La sua coalizione ha ottenuto 337 seggi sui 534 della Camera bassa, stracciando l’alleanza attorno al partito del Congresso, controllato dalla famiglia Gandhi, al potere da dieci anni, e che si è ridotto a 44 deputati, da 202 nel 2009.

Modi è esponente di un nazionalismo secondo il quale l’India è degli indù e le minoranze (musulmana, 14 per cento) e cristiana (2,4 per cento) sono appena tollerate. L’aggressività induista si è espressa nel 2002 contro gli islamici nello stato del Gujarat, a quel tempo governato da Modi: da mille a duemila morti senza che la polizia intervenisse. La stessa aggressività in atto oggi nello stato dell’Orissa nei confronti dei cristiani, vittime di violenze, di abusi giudiziari, di stupri e assassini. Si capiscono quindi i timori dei gruppi religiosi (condivisi da molti intellettuali) di fronte all’esito delle elezioni.

La borsa di Bombay ha reagito positivamente. Modi, durante la campagna elettorale, si è impegnato ad aprire agli investimenti privati (come ha fatto con successo nel Gujarat dal 2002), a combattere la corruzione, una delle piaghe dell’India, a snellire la burocrazia, a dotare il paese di infrastrutture, a rilanciare la politica di crescita, visto che il Pil attuale è ricaduto al 4,5 per cento, rispetto al doppio di dieci anni fa, di trovare lavoro ad  alcuni milioni di giovani. Anche dall’industria italiana (operano in India circa quattrocento nostre aziende) si guarda con interesse al nuovo corso.

Minori sono le attese sul piano sociale, non soltanto per il livello inadeguato della struttura sanitaria e dell’istruzione, con un alto tasso di analfabetismo specialmente femminile, ma anche per quanto riguarda il superamento del sistema delle caste, in qualche modo cronico all’induismo.

Anche l’Europa ha votato per il rinnovo del suo parlamento, con una media di appena 4 cittadini su 10 alle urne. Senza sorpresa l’aumento dei cosiddetti euroscettici che sono raddoppiati dal 2009, da 64 a 129 sui 751 membri dell’Assemblea di Strasburgo, con un paio di affermazioni clamorose, in Francia e in Gran Bretagna.

Gli europei, sembra, non amano l’Europa, o quanto meno l’Unione Europea. Gli italiani sono i più affezionati a quell’ideale, sia con una media di voto più alta, sia perché sostengono partiti che credono all’Europa. Anche se si portano appresso riserve nei confronti di una struttura farraginosa che mortifica gli ideali originari di una comunità di cittadini solidali; diffidenti sul primato dell’economia e della finanza rispetto a quello della politica e dell’azione sociale; con il sospetto che si stiano consolidando egemonie di potenze maggiori e di interessi privati, fra industrie e banche; nel rimpianto, per molti, che non si sia tenuto conto delle radici spirituali, come quella cristiana, che hanno cementato il continente.

Le due famiglie politiche del parlamento sono quelle dei popolari e dei socialisti e democratici. Esse hanno “tenuto” e sono in grado di esprimere un governo e una necessaria politica di coalizione. Il nostro paese avrà un peso maggiore rispetto al passato perché può contare su un numero di deputati di schietto sentimento europeo. Inoltre nel semestre luglio-dicembre di quest’anno la presidenza dell’Unione tocca all’Italia, con la possibilità di influire sul rilancio della crescita, sull’incremento delle speranze di lavoro per i giovani, sulla politica di soccorso alle ondate immigratorie dall’Africa verso l’Europa. E sarà anche un banco di prova per Matteo Renzi.