FARSI SUORA PER ESSERE FELICE

intervista a Maria Dalessandro
By redazione
Pubblicato il 11 Gennaio 2018

Suor Maria Dalessandro è la superiora generale della suore passioniste di San Paolo della Croce Ha 56 anni ben portati, un sorriso sincero sempre pronto sulle labbra e un tratto molto familiare con tutti, soprattutto con le consorelle, che pure la chiamano “madre”. La congregazione condivide con i passionisti la spiritualità incentrata sulla “memoria passionis”, e cioè la memoria della passione e morte di Gesù in croce, evento che il fondatore dei passionisti, san Paolo della Croce, chiamava “la più grande e stupenda opera del divino amore”. Le suore portano sul petto il segno passionista del cuore sormontato dalla croce, trasformata in segno della vittoria dell’amore.

Ho intervistato suor Maria, la scorsa estate, durante una sua visita a San Gabriele dove aveva accompagnato uno stuolo di “juniores”, giovani suore, provenienti dai 5 continenti, che si preparavano alla consacrazione definitiva. Ho iniziato in un modo piuttosto aggressivo. Le ho mostrato una pagina di un giornale dal titolo: La grande fuga dai conventi: crolla il numero delle suore. “È questa la situazione della tua congregazione?”. Suor Maria Dalessandro si scompone appena: “Sinceramente – mi dice – non riconosco la nostra congregazione in questa descrizione. In questo momento probabilmente noi stiamo vivendo una stagione di grazia”.

Vuol dire che sareste una delle pochissime congregazioni femminili che aumentano di numero?

Forse sì. È chiaro che se dovessimo confrontare la nostra situazione attuale con quella di 50,70, 80 anni fa la geografia vocazionale sarebbe diversa.

La geografia, nel senso che allora le vocazioni erano in maggioranza europee e soprattutto italiane, ora invece provengono da altre parti del globo?

Esatto. Stiamo vivendo un processo di internazionalizzazione, come è giusto che sia. Lentamente ci espandiamo in aree geografiche nuove, in genere luoghi di periferia.

Dove si espande la congregazione?

La congregazione cresce e cresce bene in Asia, in Africa e vive una stagione di rallentamento in America Latina e in Europa. Però è solo un rallentamento, non una crescita zero, anche in Italia continuiamo ad avere vocazioni e questa è una controtendenza di cui anche noi siamo meravigliate.

Fortunate…

Diciamo che ci sentiamo oggetto della misericordia di Dio perché siamo consapevoli di non avere più meriti delle altre congregazioni, né di essere migliori. Al nostro interno abbiamo i problemi di tutti e le sfide di tutti.

Ma perché una ragazza italiana dovrebbe farsi suora passionista?

Certo non perché si sente incapace di svolgere un lavoro, di innamorarsi, di mettere su famiglia. Nemmeno per una delusione di amore, caso mai per una esplosione di amore verso la persona di Gesù Cristo. Decide di farsi suora perché sperimenta che l’incontro con il Signore dona pienezza e bellezza alla sua vita. Dal punto di vista pratico, normalmente una ragazza si comincia a pensare di diventare suora passionista per una sorta di contagio: perché ha incontrato un’altra suora passionista nella cui vita ha intravisto qualcosa capace di dare senso alla vita, qualcosa che ha il potere di rendere felice. Più che farsi suora per fare il bene (come si diceva una volta, come se il bene non si potesse fare facendo la moglie e la madre di famiglia o impegnandosi in una professione), io direi: farsi suora per essere felice. La felicità dipende dalla vocazione personale.

Pensi davvero che le tue suore siano felici?

Bella domanda. Io credo di sì. Al di là de limiti e dei normali problemi della quotidianità, vedo nelle nostre suore un senso di appartenenza molto forte e questo costituisce una forza in un mondo in cui tutto è frammentato. Il senso di appartenenza è fondamentale: appartengo a qualcuno, faccio parte di un corpo e mi situo nel mondo sapendo chi sono. Questo dà solidità, serenità,… felicità.

Anche le giovani suore?

Penso che la crisi dei giovani dipenda proprio dalla frammentazione e dalla mancanza di appartenenza a qualcosa che dia senso. È ovvio che anche le nostre suore, soprattutto le giovani, portano in sé tutte le contraddizioni della nostra epoca. Però io posso dire, tornando alla domanda della fuga dai conventi, che probabilmente sono poche quelle che entrano, non sono più i grandi numeri di una volta, però chi entra, entra perché è convinta di aver trovato qualcosa. Qualcuno che dà senso alla sua vita. Ci sono anche quelle che entrano e poi lasciano, ma se facciamo il confronto con i matrimoni, in proporzione sono molto di più gli sposi che si lasciano che le suore che abbandonano.

Tu perché ti sei fatta suora?

Intanto non era nei miei progetti personali di ragazza. Sognavo nella mia adolescenza di formarmi una famiglia e anche una famiglia numerosa, come sono (o erano…) le belle famiglie del sud d’Italia. Ero assolutamente convinta che quello sarebbe stato il mio futuro. Poi avvicinando la comunità dei passionisti che allora guidavano la mia parrocchia di origine, a Monopoli, ho sperimentato che queste persone, giovani e non, avevano una luce diversa e ho incominciato a farmi delle domande: da dove viene questa capacità di leggere la vita in maniera diversa, da dove scaturisce la loro serenità che si trasmette anche senza parole? Questa domanda ha messo in moto la mia vocazione, approfondita poi nell’ascolto della parola di Dio e dalla preghiera, nell’appartenenza ad una comunità parrocchiale viva e nell’accompagnamento spirituale.

Il vostro istituto è stato fondato da una laica, una madre di famiglia, che non è mai diventata religiosa…

Sì, Maria Maddalena Frescobaldi Capponi, appartenente all’alta nobiltà fiorentina, vissuta nel 1800. Nonostante i suoi numerosi impegni alla Corte del Granduca di Toscana, dedicava molto tempo al volontariato nelle periferie di Firenze, soprattutto tra le donne emarginate che provenivano dalla povertà, dal degrado sociale e dalla strada. È rimasta colpita dalle giovani donne che sopravvivevano solo perché dedite alla prostituzione, quella generata dalla fame e dalla mancanza di alternative. Forte di una solida esperienza cristiana, si è fatta interpellare da questa realtà e nel 1811 ha iniziato a radunare queste ragazze mettendo una casa e i suoi beni a disposizione di chi voleva lasciare quella vita.

E poi?

Maria Maddalena era rimasta folgorata dalla spiritualità dei passionisti leggendo la biografia del fondatore, Paolo della Croce e trasmise questa spiritualità al gruppo di giovani che aveva accolto dalla strada e che seguiva personalmente nel loro processo di recupero. Nel 1815 quattro di queste ragazze chiesero di potersi consacrare a Dio. Certamente la memoria della Passione di Cristo aveva fatto sperimentare loro la misericordia di Dio che rigenera a vita nuova. Maddalena vide in loro la vocazione a essere passioniste fin dall’inizio. In seguito altre giovani che non avevano l’esperienza della strada chiesero di unirsi a questo piccolo gruppo e si formò una comunità che per questa caratteristica possiamo definire “profetica”: donne provenienti dalla strada e donne di “buona famiglia” chiamate a formare una comunità fondata sull’esperienza della misericordia ricevuta e donata. Non c’era distinzione fra queste donne di provenienza ed esperienza diversa; al contrario, Maddalena poneva le condizioni della continuità e della felicità nella loro unità: se sarete unite, sarete felici, raccomandava spesso.

Questa attività di vicinanza all’emarginazione continua ancora?

Questa continua a essere una sfida, anche se i modi necessariamente si adeguano ai tempi. Nel corso della storia, incarnando il carisma in vari ambiti e contesti culturali, abbiamo capito che si può operare su due livelli. Un livello è quello del recupero dell’immagine frantumata della persona e quindi il sostegno alle giovani donne che vengono da situazioni sociali di degrado, da famiglie distrutte, da prostituzione. Tra queste non possiamo ignorare oggi il fenomeno della tratta di esseri umani a cui anche papa Francesco ci sta richiamando. Nella nostra congregazione stanno sorgendo comunità che accolgono ragazze che vengono da situazioni diverse di emarginazione e difficoltà: vittime di tratta, di violenza domestica, di povertà assoluta. Nel corso degli anni abbiamo anche compreso, proprio ascoltando gli appelli della società, che la promozione della donna si fa anche attraverso l’educazione preventiva e questo dà senso ai nostri centri educativi, alle nostre scuole di ogni ordine e grado, nelle città, come nei piccoli paesi. Dovunque c’è la persona umana da educare, lì la passionista si sente di casa.

Quindi la promozione della donna è nel cuore della vostra missione…

Sì, abbiamo una particolare attenzione al problema della donna, alla sua promozione e alla tutela della sua dignità. Questa è la prospettiva particolare attraverso cui guardiamo la missione educativa. Anche là dove abbiamo centri educativi in cui si formano il ragazzo e la ragazza, il giovane e la giovane, il taglio particolare della nostra missione  è quello di formare anche l’uomo al rispetto della persona in generale e della donna in particolare.

Ce n’è bisogno. Quante casi ancora di violenze sulle donne, femminicidi, episodi di maschilismo. Le famiglie non sono in grado di educare al rispetto fra i sessi…

Esatto, ci rendiamo conto che è importante promuovere il rispetto della donna anche a partire dall’educazione dell’uomo,  ponendo le condizioni perché l’uomo e la donna siano educati a vivere insieme nel rispetto reciproco. Un altro fenomeno che ci sfida fortemente è l’immigrazione, l’accoglienza dei profughi. Come tante congregazioni, anche noi ci stiamo aprendo anche a questo fenomeno, mettendo a disposizione alcune comunità per accogliere  minori non accompagnati e donne sole o con figli.

Voi siete attive qui al santuario di San Gabriele…

Si, e personalmente mi riconosco molto in questa attività perché nei primi anni della mia vita da suora passionista, ho frequentato il santuario per un lungo periodo soprattutto nei fine settimana, affiancando la comunità nell’animazione giovanile e vocazionale. Risale a 36 anni fa la richiesta da parte dei passionisti di essere affiancati nel santuario, e da allora è iniziata una collaborazione che nel tempo si è consolidata. Credo che la presenza delle suore sia stata benefica per il santuario perché hanno dato un particolare tocco femminile nell’accoglienza dei pellegrini come nella liturgia; ma anche noi suore passioniste riceviamo tanto. Consideriamo un dono essere presenti in questo luogo benedetto dal sorriso e dalla santità del giovane Gabriele.

Chi è san Gabriele per voi?

Uno dei nostri confratelli migliori, un amico, un intercessore e confidente, un esempio di vita totalmente dedicata a Dio e al prossimo. È un modello concreto soprattutto per i giovani, ma anche per chi giovane non lo è più. Poco fa parlavamo della sfida della formazione e dell’educazione, questa non si realizza presentando ai giovani teorie astratte ma offrendo modelli concreti e Gabriele è un modello intramontabile e si presenta ai giovani come un compagno di vita, un amico che indica la strada per dare un senso alla propria vita nella gioia. Di questo i giovani hanno bisogno, perciò il nostro impegno nella della formazione dei giovani è un ulteriore motivo della  nostra presenza al santuario

Il santuario dà anche visibilità all’Istituto…

Certo, una visibilità che nel tempo ha dato anche i suoi frutti. Possiamo parlare di decine di ragazze che hanno conosciuto la congregazione qui al santuario di San Gabriele e hanno iniziato il percorso di discernimento che le ha portate ora ad essere nostre Sorelle nell’Istituto. La congregazione ha un rapporto molto speciale con l’Abruzzo, siamo presenti infatti nella regione con quattro belle comunità, molto vive e attive nella missione. In ognuna di queste comunità ci sono varie sorelle che hanno scoperto la loro vocazione passionista guardando negli occhi Gabriele…

Voi state celebrando un anniversario importante…

Si, stiamo celebrando i 200 anni di Aggregazione alla Famiglia Passionista, giubileo partito nell’ottobre 2017 e che si protrarrà per tutto il 2018. Fin dall’inizio infatti la fondatrice, che aveva affidato le prime sorelle a San Paolo della Croce, due anni dopo la fondazione ha sentito il bisogno di rivolgersi al generale dei passionisti del tempo, chiedendo formalmente un’aggregazione spirituale della nuova comunità che si sentiva già Passionista. La richiesta è stata prontamente accettata e la piccola comunità delle sorelle presenti e future, come recita il decreto di Aggregazione, è diventata a pieno titolo partecipe della grazia della memoria passionis.

A vostra volta condividete questa spiritualità con i laici?

Certamente, anche questo per una chiamata di Dio. Sono stati gli laici stessi infatti, circa 30 anni fa, a chiederci di condividere la nostra spiritualità nella loro vocazione laicale, richiesta che si è presentata quasi in contemporanea da Cuba, dal Panama, dall’Italia e dal Brasile. Questo movimento ora è presente nei paesi dei 5 Continenti e raccoglie quasi un migliaio di laici. Nel 2016 la Chiesa ha riconosciuto questo movimento come Associazione Pubblica di fedeli associato alla congregazione, mentre il superiore generale padre Ottaviano D’Egidio nel 2008 aveva già decretato l’appartenenza alla grande Famiglia Passionista.

Si tratta di laici che si sentono chiamati a vivere il loro impegno battesimale alla luce della Passione di Gesù nello spirito del carisma congregazionale. Hanno in san Paolo della Croce, grande formatore di laici, il loro padre e nella fondatrice madre Maddalena, laica sposa, madre e nonna, il loro modello.

In quale area geografica siete più presenti?

In realtà dal punto di vista numerico la nostra presenza è praticamente uguale nei continenti di Europa, America Latina, Africa e Asia. La crescita invece ha tendenze diversificate perché è indubbiamente più veloce nei continenti africano e asiatico, mentre in Europa e in America c’è un rallentamento.

In quale paese vorreste aprire?

Si sta aprendo qualche possibilità concreta verso la Cina, con la presenza di una sorella che è già nostra suora nelle Filippine. Ma abbiamo richieste di fondazioni in Mozambico, Uganda, Burkina Faso, Ghana, Madagascar…. Dal Madagascar abbiamo già una suora che, in attesa di fondare nel suo paese, lavora proprio al santuario di San Gabriele…

 

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