Quando questo pezzo vedrà la luce non so se il dramma del Coronavirus sarà passato. Forse no. Ma in ogni caso mi affretto a buttar giù alcune righe e voglio indirizzarle a un nipote. A tutti i nipoti che mi leggeranno dai 10 ai 16 anni. Caro nipote, sono felice che tu abbia un vasto raggio di interessi, le lingue certamente, ma anche gli sport, anche la matematica, che ti preparino al domani. Vedo però che la storia è scomparsa o sta scomparendo dall’insegnamento ufficiale, e allora penso che questa lacuna andrebbe riempita. Conoscere la propria storia è anche amare il proprio paese, quello che è stato, i suoi trionfi ma anche le sue sconfitte, i successi ma anche i fallimenti. Tu appartieni a una terra che è ricca di passato, basta girare in macchina per l’Italia per vedere che ogni piccolo villaggio ha memorie antiche e che ogni cittadina ha opere d’arte così preziose che basterebbero per affollare un museo. Dovunque ti giri, hai segni di una grande tradizione. E la tradizione è qualcosa che respiri, per cui un contadino dell’Illinois non potrà mai uguagliare un contadino della Toscana.
Questo passato, di opere e di uomini, di artisti e di scienziati è il nostro paese e questo paese va amato. Un tempo si parlava di amor patrio, ma è una parola disusata che sa di antico, ma detto in parole povere significa che tu devi amare la terra dove sei nato e dove è nata la tua famiglia. Viviamo in un’epoca globalizzata e internazionale, ma tutto questo non può annacquare la nostra identità. Dovunque siamo, dovunque pianteremo per lavoro le nostre tende, non possiamo tradire le nostre radici.
Ho pensato a tutto questo mentre tornavo con un viaggio avventuroso da Londra. Ho visto malati stranieri respinti dagli ospedali con le più varie scuse, europei o sudamericani morti in casa senza la possibilità di un ricovero in ospedale. E mi chiedevo se nel nostro paese avremmo mai fatto questa distinzione fra bianchi e neri, fra gialli cinesi e gialli giapponesi. E nella mia poca cultura mi dicevo che si tratta di un bacillo di civiltà che non basta un impero di tre secoli per inocularlo nel Dna.
E giacché siamo in discorso vorrei sottolineare un atteggiamento che dovrebbe essere estirpato in voi giovani: il disprezzo o la disistima per casa nostra.
Quando leggo i giornali d’Oltremanica mi sorprendo a vedere come gli inglesi abbiano un attaccamento filiale al loro servizio sanitario nazionale. È più facile perdere la fede nella Trinità che nel National Health Service.
Tempo fa un autorevole giornale (The Economist) scriveva in un editoriale: “Gli inglesi sono molto orgogliosi (very proud) della loro sanità pubblica”.
Si dà però il caso che questa sanità pubblica venga snobbata dagli europei che vivono in Inghilterra. Gli italiani corrono a curarsi a Milano o a Roma. I tedeschi a Berlino o Monaco. Gli svizzeri a Berna. Perché in realtà la sanità pubblica inglese è un colabrodo e perde pezzi da tutte le parti.
A paragone noi abbiamo un servizio sanitario che funziona malgrado le inefficienze della politica e per merito di tanti medici malpagati. Ma qui sta – caro nipote – il succo di quello che volevo dirti: non passa giorno che noi non lamentiamo le nostre inefficienze. Non ho mai trovato e mai troverò un solo giornale che scriva: “Gli italiani sono molto orgogliosi del loro servizio sanitario”. Per noi l’erba del vicino è sempre più verde.
Abbiamo una carenza vitaminica di patriottismo anche se l’espressione sa di retorico. Certo, ci sono mille cose che vanno male, certo esiste una vasta corruzione, certo esiste anche il malgoverno, l’insipienza, la superficialità ma non possiamo denigrare tutto un paese. Dobbiamo amarlo, perché amarlo significa anche la volontà di migliorarlo. Ripenso alle parole di Baden Powell che è stato il fondatore dei boy-scouts: “Dobbiamo lasciare il mondo un po’ meglio di come lo abbiamo trovato”.