Riuscirà la cancelliera Angela Merkel a conquistare il prossimo 22 settembre il terzo mandato per dirigere la Germania? Non è una domanda prematura perché, dopo i risultati della Francia, alla fine del 2012, e dell’Italia, lo scorso febbraio, potrebbe completarsi un panorama, diciamo riformatore, nella politica europea. Alcune fra le più recenti consultazioni regionali tedesche, negative per l’attuale coalizione cdu-liberali, lasciano intravvedere ipotesi diverse di governo (per esempio della Merkel con i socialisti) rispetto all’alleanza conservatrice di oggi. E anche altri esiti elettorali in Europa illustrano una tendenza analoga, come le recenti presidenziali nella Repubblica Ceca vinte dal filo-europeista e socialdemocratico Milos Zeman.
Il mondo occidentale ha forse imparato la lezione della crisi finanziaria innescata dal “libero mercato” e dai suoi autorizzati speculatori, spesso sostenuti da classi dirigenti e governi “moderati”. Ci si batte per eliminarne le conseguenze, pagate dalla maggioranza dei cittadini, con qualche consapevolezza che viene appunto espressa dalle urne. A cominciare dalla riconferma alla presidenza americana, lo scorso novembre, di Barack Obama. Hanno una sicura rilevanza sociale i primi provvedimenti da lui presi, come le leggi sul bilancio e sulla sanità e la resa dei conti chiesta a quelle società “di consultazione” che hanno contribuito allo scatenarsi della crisi. In una visione progressista e maggiormente sollecita del bene comune, rispetto al ritorno autoritario nella Russia di Vladimir Putin e al regime dittatoriale e conservatore (specie dopo i mutamenti al vertice alla fine del 2012) di un paese, la Cina, fra i pochi a utilizzare l’aggettivo “comunista”.
Ma anche fuori dal perimetro dell’occidente l’espressione della volontà popolare, vera o guidata dai regimi, contribuisce a modificare gli assetti politici generali. Accade in Egitto e Tunisia, dove i risultati delle urne sono stati ritenuti dai vincitori – nei due casi le rispettive formazioni islamiche integraliste – come salvacondotti per imporre una politica “religiosa”. Di qui le rivolte, con violenze e vittime, nei due paesi e conseguenze al momento non esattamente valutabili: le primavere arabe non si sono ancora concluse e chi sa quale sarà il tragico conto finale di rivoluzioni mal gestite.
Altro è il caso di Israele, il solo paese del Medioriente dove funziona la democrazia elettorale: il voto di febbraio non ha sciolto i nodi (in particolare l’espansione colonialistica su terre altrui), anche se ha inferto un colpo alle pretese autoritarie di Benjamin Netanyhau, del suo partito e della destra politica. Non a caso proprio in questa situazione di debolezza dei conservatori si svolgerà il primo viaggio di Barack Obama nello stato ebraico: alla ricerca forse, da parte degli Usa, di una soluzione dell’annoso problema dei rapporti con i palestinesi e di quel vagheggiato e invano rincorso risultato della pace attraverso la costituzione nell’area dei due paesi-due stati.
C’è ancora una consultazione presidenziale di cui parlare: quella che impegnerà, nel prossimo giugno, la Repubblica islamica dell’Iran. Vane le parole come pluralismo e libertà in un paese in cui non esiste certezza di diritto e dove in una “retata” (termine che tanto ricorda il nazismo) sono stati arrestati almeno quaranta giornalisti non in linea con il regime. Elezioni farsa che pure hanno un significato di ratifica formale per il capo di uno stato che si appresta a dotarsi, nonostante i dinieghi, dell’arma atomica. Contro chi?