Eleganza e buon cuore

Per capirlo, bisogna osservarlo nelle sue azioni e nelle sue reazioni. Ha sempre conservato la sua gentilezza e il suo portamento garbato ed educato

Anche Checchino, dai dodici ai diciotto anni avvertiva in sé il cambiamento fisiologico, psicologico ed emotivo. La turbolenza dell’adolescenza lo trasformava rapidamente da bambino a ragazzo in cerca di compagni e ambienti diversi dalla casa. È ovvio che, frequentando il collegio dei gesuiti, gli amici li trovasse soprattutto tra i banchi di scuola. Erano tutti di famiglie aristocratiche. Tra essi, alcuni si sono distinti perché sono rimasti sempre legati a lui, come Martinelli, Parenzi, Campello, Poli, Giovannetti Filippo, che lui chiamava Pippo. Con quest’ultimo, l’amicizia si protrasse fin dopo il suo ingresso al noviziato. Lo dimostra una lettera da lui scritta dal convento di Pievetorina (MC) il 13 maggio 1859, in cui dice: “Pippo mio… tu sei stato l’unico che sì lungamente e per tanti anni hai coltivato la mia amicizia”. Che bello! Sono parole che evidenziano con chiarezza la sua squisita umanità.

Per capire Checchino, bisogna osservarlo nelle sue azioni e nelle sue reazioni. Ha sempre conservato la sua gentilezza e il suo portamento garbato ed educato. Al riguardo le testimonianze sono concordi. Tuttavia, nutriva una particolare attenzione nel curare la sua immagine. Gli piaceva stare al passo con la moda del tempo. Nel vestire era impeccabile. Guai se la camicia o i pantaloni non erano ben stirati e con le pieghe a posto. Andava su tutte le furie e se la prendeva con la povera domestica Pacifica. Questa sua smodata esigenza di apparire esteriormente inappuntabile, oltre a rivelare il suo stile di vita preferito, forse trovava supporto anche dalle disposizioni date dal papà. Infatti, Sante Possenti, persona stimata e rispettata in città, aveva ordinato che “tutti i figli usassero vestiti e portamenti signorili, rispondenti alla loro condizione”. Così ha scritto l’autorevole biografo A. Battistelli. Quanto detto sopra, fa tornare in mente un aneddoto spassoso raccontato dal Giovannetti. Si tratta di un tipico copricapo chiamato cappello a cilindro. All’epoca, costituiva uno status symbol. Chi lo indossava mostrava di appartenere ad una classe sociale elevata. Il babbo di Checchino voleva che il figlio lo indossasse. Non ci è dato sapere se lui, per la vivacità che aveva, l’abbia accettato volentieri. Tuttavia, se lo mise. Qui avviene ciò che ci si aspettava. Si sa che i giovani, di qualunque epoca siano, amano sfottersi e scherzare. Quando i compagni videro arrivare Checchino con la tuba sul capo, sbottarono a ridere come matti. Lui accettò bonariamente quella ironica accoglienza, ma, pensava tra sé e sé: “È la prima volta. Poi, si abitueranno”. Mentre discorrevano tra loro, un compagno per riderci sopra, gli andò dietro e con una forte manata gli fece calare il cilindro fin sul naso. Checchino non gradì affatto quello scherzo da maleducato. Un giorno prima di uscire di casa, escogitò un espediente efficace per correggerlo. Infilò sull’alto del cappello dall’interno, una serie di spilli. Quando raggiunse il gruppo degli amici, andò a mettersi con disinvoltura davanti a quel compagno. Questi, vedendosi a portata di mano il signorino Possenti, pensò di ripetere lo scherzo. Si spostò pian piano dietro, e giù, con forza, a mano aperta, mollò un colpo sul cappello, ma, la ritirò subito gridando: “Ahi!” tra le risate di tutti. Da allora… non ci provò più.

Raccontiamo un altro aneddoto che ci mostra Checchino nella sua esuberanza giovanile. Il tempo tipico delle trasgressioni adolescenziali. Un giorno il fratello Michele camminando per una strada del centro di Spoleto, vide Checchino con alcuni compagni, che stava fumando. Appena si avvicinarono, Michele gli disse: Checchino tu fumi? La risposta fu: “che male c’è? Tu pure fumi”. Il fratello si giustificò replicando: “È vero. Ma io sono più grande di te”. Da quel giorno Checchino, amareggiato dal richiamo del fratello, non smise di fumare, ma lo fece di nascosto dai suoi.

Tuttavia aveva un cuore grande. Se qualche povero bussava al portone di casa, Checchino correva subito dalla domestica Pacifica per avere qualcosa da offrire. Se la domestica si mostrava contraria, lui la convinceva dicendole: “Anche il Babbo vuole che si faccia l’elemosina. Non dobbiamo disprezzare i poveri perché non sappiamo come potremmo trovarci un giorno”. Se recandosi a scuola, si imbatteva per strada con qualche indigente, lui gli dava parte della merenda, o gliela dava tutta. A tal proposito racconta il fratello maggiore Michele: “Una mattina incontrammo un vecchio mendicante. Checchino con premura gli si accostò e gli mise in mano i due o tre baiocchi che aveva (antica moneta d’argento del Regno Pontificio, ndr) e che formava la sua ricchezza”. Tra i suoi svaghi, aveva un posto di preferenza la caccia. Una volta durante una battuta di caccia, il fratello Michele si ferì a una mano tagliando delle frasche. Gli usciva molto sangue. Checchino corse ad una farmacia che stava abbastanza lontano per prendere un cerotto. Il farmacista non glielo diede perché non aveva la ricetta. Tornò a mani vuote sul luogo dell’incidente. Tutti risero. Ma rimasero ammirati per il gesto generoso di Checchino che dovette correre per una decina di chilometri. Questi episodi (e altri che racconteremo in seguito) ci permettono di scandagliare in profondità il cuore di Checchino.

L'ECO di San Gabriele
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