PERCHé LA MERKEL FA IL BAGNO A ISCHIA E NON NEL MAR BALTICO?

intervista a VITTORIO MARCHIS
By Gino Consorti
Pubblicato il 1 Maggio 2015

“Mi piacerebbe sapere qual è il flusso di ferie che proviene dal Nord Europa verso l’Italia e quello che dall’Italia va verso il Nord Europa… A mio avviso lo spread artistico – afferma il noto scrittore, docente del Politecnico di Torino e inventore delle ‘autopsie delle macchine’ – dovrebbe essere un nuovo parametro da mettere sul tavolo della valutazione, altrimenti corriamo il rischio di nuovi Neanderthal…   Chissà come possono convivere scienza e tecnologia con le arti umanistiche… Poesia e sistemi meccanici, pittura e utilizzo dell’energia. Boh… D’altra parte, però, riflettendoci bene, il sommo poeta Dante nella Divina Commedia dà grande sfoggio di tutte le sue conoscenze scientifiche, dall’astronomia alla matematica, dalla geometria all’alchimia…

Penso a questo mentre la mia auto, avvolta dall’oscurità, sfila lungo l’autostrada che conduce a Torino dove, ad attendermi, c’è l’ingegnere meccanico Vittorio Marchis, professore ordinario di Storia della tecnologia e storia della cultura materiale al prestigioso Politecnico di Torino. Un tecnologico con la passione della storia, della pittura, dell’arte. Un professore che insegna ai futuri ingegneri il funzionamento delle macchine e nello stesso tempo come si costruisce la vita in un mondo sempre più tecnologico. È lui il mio personaggio del mese. Oltre ad aver pubblicato numerosi articoli, studi, ricerche, libri, Vittorio Marchis è anche un apprezzato autore e conduttore di programmi radiofonici. Dopo aver diretto per 13 anni il Centro Museo e Documentazione Storica presso il Politecnico di Torino, attualmente è referente per i Beni di interesse storico, scientifico e tecnologico in attesa che il museo possa trovare una nuova veste istituzionale.

Torino, che non è stata solo la città della Fiat, non può più considerarsi un centro industriale. La gran parte delle fabbriche ha infatti lasciato posto al terziario e la città si sta avviando verso un modello che fa della cultura a 360 gradi la sua vocazione. In questa direzione, ovviamente, s’innesta l’opera meritevole di Vittorio Marchis e la sua nobile e felice intuizione del Centro Museo e del Museo virtuale del Politecnico. In lui alberga il famoso istinto di narrare proprio di ogni essere umano sin da quando apre gli occhi, come sottolinea il noto studioso americano Jonathan Gottshall. Recentemente ha mandato in libreria Le cose di casa (Codice Edizioni, pp.183, euro 25,00) dove racconta attraverso informazioni e aneddoti simpatici la storia degli oggetti a noi più familiari. Un viaggio lungo e divertente che cattura magicamente il lettore sin dalle prime pagine. Nella sua prima pubblicazione, invece, La Storia delle macchine, che ha avuto tre edizioni, Marchis ha puntato la sua lente d’ingrandimento su tre millenni di cultura tecnologica senza farsi mancare, però, mirabili incursioni nella letteratura, nella poesia e, perché no, nel fantastico.

Professionista di grande spessore morale e culturale, storico rigoroso, docente dalle elevate capacità espressive, uomo ironico e sorprendente. Una dimostrazione? Per andare incontro al grande pubblico, non solo scolastico, negli ultimi anni si è inventato l’autopsia delle macchine. Lezioni che raccontano la storia delle macchine dall’interno della loro pancia. Prodotti che non custodiscono solo meccanismi perfetti e oggetti tecnologici ma anche ricordi, poesie, geni artistici, cultura. Un metodo singolare quanto vincente quello “brevettato” da Vittorio Marchis, che permette in modo mirabile di raccontare il rapporto tra l’uomo e la tecnica.

Il docente piemontese mi riceve con grande cortesia nella sede operativa del Centro Museo, la sua seconda casa… E tra montagne di libri, quadri, oggetti e macchine di vario genere a farci da simpatica cornice, iniziamo la nostra chiacchierata.

Come nasce la sua passione per non dire necessità di raccontare le storie, ovviamente nel senso più nobile del termine…?

Dopo una lunga esperienza di docente presso il Politecnico di Torino, e in precedenza anche in Sicilia, mi sono convinto che l’ingegneria rischiava di essere un po’ troppo relegata in spazi angusti. Anche perché guardando gli ingegneri c’è sempre l’idea che siano loro a dover risolvere i problemi di tipo tecnico senza interessarsi del contesto. Allora, quando nei primi anni 90 sono ritornato a Torino, ho cominciato a insegnare Storia della tecnologia ad Architettura cercando di importarla in maniera più o meno diretta anche a Ingegneria. Anche se non è stato semplice, alla fine ci sono riuscito a insegnare questa disciplina cambiando anche la titolarietà della mia cattedra. Da ordinario di Meccanica teorica applicata, a mio avviso una materia pallosissima, a docente di Storia della tecnologia e Storia della cultura materiale. Secondo me una materia più piacevole, anche sotto l’aspetto della comunicazione.

Immagino, dunque, sia tra coloro che ritengono che l’uomo di Neanderthal si sia estinto perché era troppo tecnico…

Proprio così. L’uomo di Neanderthal aveva pensato che la tecnologia avesse potuto risolvere tutti i problemi. In effetti li aveva risolti continuando a inseguire le risorse. A un certo punto, però, quest’ultime sono iniziate a mancare… E chi è diventato, allora, competitivo sulla scala dell’evoluzione? Quel ceppo che proveniva dal Centrafrica e dove c’era sì un po’ di tecnologia, ma quello che sarà poi l’homo sapiens amava, alla fine della giornata, sedersi intorno al fuoco, raccontare le storie, magari dipingersi il viso. Fare, cioè, cose che qualcuno potrebbe ritenere inutili per la sopravvivenza. In questo modo, però, ha stimolato all’interno del cervello nuovi meccanismi che gli hanno permesso, anche di fronte alle catastrofi che inevitabilmente ci colgono, la capacità emotiva,  oserei dire la capacita spirituale, di poter trovare una soluzione nuova.

Come le è venuta in mente l’idea di sottoporre ad autopsia macchine e oggetti tecnologici?

Il tutto è nato circa dieci anni fa durante una lezione a una classe di quinta elementare. Presentavo ai ragazzini la macchina da scrivere, per loro un oggetto sconosciuto… Chiesi agli alunni di scrivere qualcosa, ma la risposta fu immediata e unanime: la macchina non funziona. Credevano, infatti, bastasse appoggiare le dita sui tasti come in una tastiera del computer… Gli spiegai, allora, che occorreva pigiare i tasti in maniera energica. Ciò che mi colpì, però, fu la reazione di un grazioso bambino down.

Cioè?

Trovava quella macchina da scrivere, per due motivi, più bella di un computer… Gli chiesi quali fossero e lui mi rispose “perché non c’è la spina…”. Evidentemente in casa era abituato a non toccare fili elettrici e quant’altro.

E l’altro motivo?

Guardandomi con un sorriso meraviglioso,  aggiunse: “Perché ha dentro la stampante…”. Quelle due realtà, dunque, la capacità di scrivere e il fatto di non avere una spina elettrica, mi fecero capire che avrei potuto andare in giro a raccontare tante storie, più o meno vere o fantastiche, presentando gli oggetti che stanno intorno a noi.

Un successone visti i tanti inviti ricevuti in Italia e all’estero…

Proprio così, sono stato anche in Canada, negli Stati Uniti, a Parigi e in Svezia. Recentemente, poi, Sat 2000 mi ha chiesto di eseguire in diretta televisiva l’autopsia di un forno a microonde. Una macchina progettata per i radar…

Alla fine di ogni autopsia lei chiede al pubblico se vuole portarsi a casa un pezzo della macchina ispezionata… Perché?

Possono diventare elementi di ricordo e di partecipazione fisica di un atto mentale di un’operazione culturale che altrimenti, come sottolineato anche dai grandi antropologi, sfumerebbe.

Il motivo?

Accade ciò quando le idee non sono supportate dagli oggetti rituali e dai riti. Sono proprio queste persistenze materiali che ci devono aiutare a mantenere quello status che ci ha fatto sopravvivere come esseri narrativi.

Quali sono state, a suo avviso, le innovazioni tecnologiche applicate poi nel mondo artigianale e industriale, nate dal genio creativo italiano, che hanno rappresentato le tappe fondamentali del novecento?

Essenzialmente sono da ricercare negli ultimi anni dell’ottocento. Mi riferisco alle macchine elettriche inventate da Galileo Ferraris e la radio concepita da Marconi, anche se poi viene sviluppata completamente al di là dei confini del nostro paese. Questo ci fa vedere come un paese povero e senza grande storia di democrazia – era infatti nato nel 1861 – e ancora alle prese con grossi problemi come ad esempio l’analfabetismo, aveva saputo confrontarsi con l’ambiente esterno cercando di trovare nuove strade.

Cultura, bellezza e nello stesso tempo utilità. Si riferisce a questo?

Assolutamente sì. Noi dovremmo sopravvalutare il fatto che siamo un paese che ha permesso di trasferire in maniera genetica all’interno delle nostre menti il senso della bellezza e dell’utilità messe assieme. Non è importante soltanto fare delle cose belle che poi, però, si dissolvono in poco tempo, magari perché sono fatte di materiali inadeguati che l’inquinamento degrada facilmente. Occorre sapere che ci vuole una sostenibilità delle cose.

Come mai, professore, la scelta di Ingegneria meccanica dopo il liceo classico?

La scelta è figlia di tanti motivi. Ad esempio ero convinto che se avessi intrapreso una carriera umanistica forse non sarei riuscito a sostenermi in maniera tecnologica… Sarei potuto essere un poeta che viveva però come un clochard… In pratica, essendo ormai passato il boom economico, sapevo che era molto difficile entrare in maniera creativa nel mondo delle lettere…

Facciamo ancora un passo indietro, professore, e torniamo alla sua infanzia. Già da bambino smontava trenini e robot…?

Ho vissuto la mia adolescenza nel periodo del miracolo economico, 1950/60, anni in cui c’era un bricolage scientifico. Anche se non ero un ingegnere elettronico e non avevo frequentato l’istituto tecnico, mi divertivo a costruire le radio. Inoltre ricordo che all’età di 13 anni, in una casetta di campagna vicino a Torino, da grande appassionato delle avventure di Jules Verne ed Emilio Salgari mi divertivo a costruire, su una vecchia carretta rovesciata, una nave fantastica su cui caricavo i miei tre fratelli cercando di aprirmi a nuove avventure. Smontare ma anche ricostruire. D’altra parte anche le narrazioni sono delle ricostruzioni.

A proposito di narrazioni, il suo ultimo e godibilissimo libro s’intitola Le cose di casa. Lei lo definisce un piccolo ma significativo richiamo al fatto che le macchine sono parte di noi e hanno contribuito a renderci quello che siamo, e che se di colpo scomparissero tutte, probabilmente l’umanità come la conosciamo si estinguerebbe in poco tempo…

Noi siamo arrivati a un punto, e ce lo dicono le tante crisi energetiche, culturali, economiche eccetera, in cui dobbiamo seriamente pensare a come sopravvivere al declino delle macchine. Un paese non è più inteso ricco, come diceva il filosofo ed economista Adam Smith, per la sua ricchezza di produzione tecnologica ma più che altro per la sua conoscenza. Non a caso i nuovi investimenti si stanno sempre più localizzando verso il grande patrimonio di cultura. Certo, se le macchine scomparissero tutte e noi rimanessimo impreparati con quella mentalità che assegna alle macchine la totalità del successo senza sapere raccontare nuove cose, e quindi trovare nuove fantasticherie da poter rendere concrete, certamente la nostra umanità si estinguerebbe. Del resto, non c’è mai stato un santo o una sacra scrittura che abbia mai detto che il mondo non finirà… Non voglio lasciare idee negative ai nostri lettori, ma non illudiamoci che su questa terra ci sia l’eternità…

Nella sua carrellata che spazia dagli antichi ai moderni, ad esempio compare un certo Alessandro Cruto che lega in maniera determinante il suo nome alla rivoluzione luminosa…

Era un autodidatta e assistendo alle lezioni di Galileo Ferraris era venuto a conoscenza del fatto che il diamante altro non è che carbonio purissimo. A Cruto, allora, venne la fantastica idea di costruirsi un diamante artificiale… Il tentativo di fare evaporare il carbonio sottovuoto e depositarlo sui cristalli, però, fallì miseramente… Cosa che invece gli riuscì su alcune lamine sottilissime. La sua genialità, dunque, fu non disperarsi ma trovare un altro impiego a quella invenzione non riuscita. Il filamento, immerso in un’atmosfera di etilene, aveva una resistenza elettrica che cresceva in maniera proporzionale con la temperatura. In questo, dunque, è andato ben oltre le invenzioni di Thomas Edison. Le lampadine di Cruto, infatti, avevano una luminosità molto maggiore di quelle di Edison che avevano invece un filamento fatto con delle fibre di bambù carbonizzate, un metodo assolutamente artigianale. Inoltre duravano molto di più, avevano circa 500 ore di vita.

In merito al brevetto del frigorifero ad assorbimento, invece, qual è la curiosità?

è figlio del padre della relatività… Stiamo parlando di Albert Einstein, il quale rimase turbato da un episodio di cronaca. Un frigorifero ad ammoniaca aveva sprigionato vapori tossici uccidendo due persone. Allora, insieme a un suo allievo, ci lavorò sopra realizzando un nuovo frigorifero che non aveva parti mobili, senza motore e senza compressori, quindi molto più affidabile e con rischi di perdite e guasti molto minori.

Ci racconta, invece, come la cioccolata, casualmente, favorì la scoperta dell’utilità del microonde?

Quasi tutti, ormai, abbiamo in casa una macchina che ci permette di scongelare in pochissimo tempo i cibi piuttosto che non riscaldare qualche pietanza. Il forno a microonde è uno di quegli oggetti misteriosi perché non fa fuoco, quasi non si scalda eppure riesce a cuocere, a far bollire l’acqua, eccetera. In realtà il forno a microonde ha un’origine strana perché nasce come effetto collaterale dell’industria dei radar. Siamo al tempo della seconda guerra mondiale e un tecnico, Percy LeBaron Spencer, sta sperimentando la valvola magnetron per lo sviluppo del radar. Un giorno, però, mentre lavorava su un radar acceso notò che una tavoletta di cioccolata che aveva in tasca si era sciolta. Fu allora che intuì che quell’oggetto avrebbe potuto avere un’altra funzione. Ovviamente ci vollero alcuni anni, anche perché il magnetron era un oggetto strategico e quindi non poteva uscire dalle stanze del Dipartimento della difesa americano. Quando però alla fine degli anni 50 fu sdoganato dalla sua segretezza, fu subito racchiuso in una gabbia metallica in modo che non cuocesse chiunque gli capitasse a tiro…

Facendo un’autopsia alla macchina da caffè, invece, cosa scopriremmo?

Una metafora del corpo umano…, ovviamente ci riferiamo alla macchina a cialde. Ha i muscoli che servono a chiudere la capsula e a tenerla ben stretta dentro una camera che può salire di pressione; ha il sistema nervoso rappresentato da un piccolo computer interno fatto di vari sensori; ha un sistema circolatorio attraverso una pompa; ha un sistema urinario in quanto riesce a gestire l’acqua; ha dei filtri che possono rappresentare i reni… Insomma, una sorta di corpo umano meccanico… A tal proposito il prossimo autunno inaugurerò il convegno dell’Associazione dei musei scientifici italiani facendo un’autopsia proprio della macchina del caffè.

Nella lunga disputa giudiziaria tra Bell e Meucci, circa la paternità dell’invenzione del telefono, forse non tutti sanno che parallelamente si sviluppò un’altra intricata vicenda legata all’invenzione di Inno-cenzo Manzetti…

Proprio così, stiamo parlando di un altro inventore sconosciuto che soltanto a posteriori è stato rivalutato nella sua innovazione tecnologica, oserei dire quasi più importante di quella di Meucci. Sia chiaro, di quest’ultimo non voglio assolutamente sminuirne la figura, ma lui aveva inventato il telefono essenzialmente per poter comunicare con sua moglie che era bloccata al letto da un’artrite reumatoide. Meucci, infatti, non aveva certamente ancora l’idea che il telefono potesse diventare rivoluzionario nelle comunicazioni pubbliche. Tant’è che si dimenticò di pagare il caveat per poter mantenere il suo brevetto fino a quando un finanziatore non lo avesse supportato e quindi sovvenzionato in maniera più diretta. Non dimentichiamoci, però, che lui aveva brevettato altre invenzioni che oggi ci fanno sorridere…

Ad esempio?

Una sorta di conserva di pomodoro, oppure una bevanda frizzante al gusto arancia…

Perché frizzante?

Perché mettendo dell’anidrite carbonica permetteva alle spremute d’arancia che preparava alla moglie di non fermentare e quindi di essere utilizzabili a lungo. Il tutto, dunque, sempre nell’ottica efficientista familiare… Infatti poteva prepararne in grande quantità mettendosi al riparo dalle continue richieste della moglie… Pertanto potremmo dire che la Fanta non sia un brevetto della Coca Cola visto che la “proprietà intellettuale” dell’aranciata frizzante appartiene a Meucci…

Veramente interessante, professore, però nel frattempo ci siamo persi di vista Manzetti…

Ha ragione… Sin dai primi decenni dell’ottocento Manzetti, nativo della Valle d’Aosta, si era interessato alla trasmissione della voce a distanza. In una memoria del 1849, infatti, si parla di due apparecchi, “due specie di contenitori svasati assieme a una pergamena tesa da un cerchio di ferro bianco…”. Così a quanto pare, la trasmissione del suono per via elettrica nacque ai piedi delle Alpi. L’invenzione di Manzetti, che aveva perfezionato il suo sistema “telefonico” per far parlare un suo automa, venne presentata al governo ma non trovò la giusta attenzione. Anzi, fu contrastata dallo stesso ministro della Pubblica istruzione, Carlo Matteucci, il quale nel 1864 dichiarò che non avrebbe mai permesso di adottare l’apparecchio di Manzetti, perché gli utenti lo avrebbero usato, a differenza del telegrafo, per comunicare direttamente tra di loro evitando il controllo pubblico…

Non vorrei svelare l’intero contenuto del suo appassionante libro divulgativo, però ho un’ultima curiosità… Cosa c’entra lo sciacquone del bagno con l’autoaffondamento di un sommergibile tedesco durante la seconda guerra mondiale?

Ricordiamo intanto che questa tecnologia si diffonde alla fine dell’ottocento proprio in ragione delle innovazioni sanitarie introdotte prima in Francia e poi in tutta Europa da Pasteur. Egli, infatti, intuisce come l’igiene possa migliorare in maniera sostanziale la vita domestica di tutti. Quindi, dalla metà dell’ottocento, quando i servizi igienici erano al più in un gabbiotto nel cortile oppure si andava nei campi…, nel giro di poco tempo arriva l’acqua potabile, arrivano le fognature e le città si modernizzano. Però anche quelle città galleggianti che sono le navi devono essere dotate di servizi igienici, ancor più i sommergibili che, muovendosi sott’acqua, hanno maggiori difficoltà nell’espellere acqua e liquami. Le operazioni, all’epoca, erano complesse mentre oggi nei wc dei sommergibili si usano le stesse tecnologie degli aerei e dei treni. Sistemi pressurizzati che provvedono a tutte le funzioni senza che ce ne accorgiamo. All’epoca, invece, quell’operazione in un sommergibile richiedeva una serie di procedure: l’apertura e la chiusura di certe valvole, l’apertura e l’azionamento e lo spostamento di alcune leve, eccetera, eccetera. Accade allora che il 14 aprile 1945, un comandante tedesco che non voleva soggiacere a simili procedure e alla necessità di farsi spiegare da un suo sottoposto l’iter da seguire, trovandosi nell’impellenza… operò senza seguire le istruzioni per l’uso. Fu così, allora, che allagò la toilette del sommergibile e quindi il locale delle batterie. A quel punto il sommergibile fu costretto a riemergere diventando vittima degli attacchi aerei inglesi…

Come nasce l’idea del Centro Museo e Documentazione Storica?

Insieme ad alcuni colleghi ho ritenuto che anche il Politecnico di Torino dovesse rivalutare la sua memoria storica. Quindi intorno alla metà degli anni 90 sono riuscito a convincere l’allora rettore Rodolfo Zich a creare un piccolo spazio che sarebbe dovuto poi diventare il primo nucleo per un futuro museo del Politecnico. Molte collezioni erano nascoste, molte altre non erano visitabili perché accatastate all’interno di locali che erano più che altro dei ripostigli… Siccome molte di queste cose rischiavano di essere abbandonate o addirittura distrutte, nella sede attuale, che di fatto è un basso fabbricato all’interno di un cortile, ho iniziato a dare vita a questo primo nucleo. La speranza era di trovare nel giro di poco tempo una sede più adeguata. Purtroppo ancora oggi sto aspettando uno spazio adatto a ospitare il museo… La verità è che bisognerebbe capire che la tecnologia non è fatta solo di algoritmi, di soluzioni e numeri, ma anche di storie. Facendo nel contempo una seria meditazione su quella che è stata la sorte dell’uomo di Neanderthal…

A suo avviso c’è il rischio che internet possa sostituire la scuola?

Internet, come tutte le grandi rivoluzioni culturali, non può essere dimenticata e non si può fare a meno di pensare che l’istruzione e la cultura non usufruiscano dei nuovi mezzi della rete. A mio avviso, però, pensare che una macchina automatica, come può essere un computer oppure un sistema intelligente, possa sostituire l’uomo significa andare incontro a una brutta illusione. È come dire che i computer, che certamente hanno facilitato la nostra scrittura, debbano farci dimenticare l’uso della penna e della matita… L’uso di entrambe, infatti, sono fondamentali per la nostra cultura, anche se ormai un libro non si scrive più con la penna o con la matita…

Ma in questo mondo sempre più inondato di tecnologia hi-tech non ritiene che in qualche modo stia scomparendo l’abitudine al ragionamento?

Sì, la cultura hi-tech sta trasformandoci in esseri passivi dell’apprendimento. Un conto è leggere un libro che implica fatica unitamente a una ricreazione della vicenda all’interno del nostro cervello. Ad esempio quando leggiamo Il giro del mondo in 80 giorni non ci soffermiamo solo sulle parole ma ricostruiamo nella nostra mente un vero viaggio attorno alla terra. Altra cosa, invece, è vedere lo stesso racconto su uno schermo. In quel caso non fatichiamo affatto, anzi possiamo bloccare addirittura l’immagine e riprenderla quando vogliamo… Questo è sicuramente molto meno faticoso, però così facendo intasiamo il nostro cervello di tante informazioni che lo occupano come purtroppo occupiamo gli hard disk dei nostri computer… La Divina Commedia, ad esempio, scritta in caratteri occuperebbe una minima parte di memoria, il vecchio floppy disk, ad esempio, avrebbe potuto contenerla tutta… Se invece voglio guardare uno spot di pochi minuti su YouTube ho bisogno di una memoria molto ma molto più capiente… La stessa cosa avviene nel nostro cervello, rischiamo di avere una mente meno operativa e più intasata di suoni e immagini che a un certo punto bloccano la nostra creatività di immaginazione e bloccano anche la creazione di quei collegamenti tra le sinapsi, tra le cellule del nostro cervello che poi saranno quelle che ci faranno sopravvivere quando, invecchiando, alcuni collegamenti inizieranno a bruciarsi. Io sono convinto, e lo dico in maniera un po’ provocatoria, che l’incremento delle malattie come l’Alzheimer sia dovuto anche al fatto che siamo diventati soggetti più passivi nella conoscenza. Perché abbiamo fatto funzionare meno i muscoli del nostro cervello. È un po quello che succede quando noi, ad esempio, non esercitiamo più una gamba che a causa di un infortunio resta immobilizzata a lungo. Il rischio è proprio quello di farci atrofizzare il cervello. È lo stesso rischio che si corre nel riporre estrema fiducia nella tecnologia. Le macchine, purtroppo, non sconfiggono le nostre paure… Magari, invece, accade pensando alla favola di Cappuccetto Rosso

Basso numero di laureati rispetto agli altri paesi della Ue, alto numero di abbandoni degli studi, altissima percentuale di ritardi negli studi che portano a una durata media di oltre 5 anni per un corso di studi che dovrebbe durare 3. E poi ancora risorse ridotte e pochissimi stanziamenti per la ricerca… I dati dell’agenzia di valutazione Anvur non disegnano un quadro incoraggiante… Quanto è alto, allora, il rischio di un collasso del sistema universitario?

Ritengo che il collasso del sistema universitario ci sia ma che non sia solo un fenomeno italiano bensì mondiale. L’idea universitaria deve cambiare in quanto non è più adeguata con i progressi sociali, economici e culturali che stiamo attraversando. Detto questo, comunque, non giudicherei arretrata la nostra università come invece certi numeri vorrebbero farci credere. D’altra parte il fatto che i nostri migliori laureati trovino senza alcuna difficoltà impiego in paesi che in materia culturale ed economica ci snobbano, significa che stiamo formando una classe eccellente di giovani che poi, però, viene sfruttata da altri che non hanno contribuito minimamente a finanziare…

In un certo senso come avviene con le invenzioni… Ne abbiamo tirate fuori tante ma senza sostenibilità…

Esattamente. Bisognerebbe rendersi conto che ormai la globalizzazione impone anche la globalizzazione degli investimenti per cui se la scuola italiana genera una classe di giovani adatta per poter diventare innovativa in un contesto internazionale, le varie multinazionali dovrebbero allora investire nel nostro paese in cultura e non, invece, in uno stabilimento o in una nuova fabbrica che di nuovo ci crea sudditi di una suprema nazione dove il nostro potere decisionale è pari allo zero…

Vedo che le valutazioni dell’Anvur le suscitano più di un prurito… Cos’è una difesa d’ufficio della categoria…?

Assolutamente no. Critico le valutazioni perché ritengo siano fatte in maniera asettica… Quando ad esempio confrontiamo lo spread tra l’Italia e la Germania ci dimentichiamo completamente che nel calcolo non c’è il numero di giornate di sole nell’ambito di due paesi… Per quale motivo, ed è una mia domanda, il primo ministro tedesco Angela Merkel viene a trascorrere le vacanze ad Ischia mentre invece il nostro premier non va ad Aquisgrana per le sue ferie estive? Perché la Merkel non va a fare il bagno nel Mar Baltico? Ci sarà pure un motivo… E ancora. Qual è il supporto che la Germania, e lo dico provocatoriamente, dà al turismo italiano? Quanto spende la Germania per poter sostenere il fatto che una parte dei suoi cittadini venga in Italia a trascorrere le ferie? Mi piacerebbe sapere inoltre qual è il flusso di ferie che proviene dal Nord Europa verso l’Italia e quello che dall’Italia va verso il Nord Europa… Credo uscirebbero fuori cifre assolutamente non compatibili. E questo non solo perché noi abbiamo, come spesso si dice, il più bel museo del mondo all’aperto. I nostri cittadini, infatti, anche i più ignoranti, i più illetterati e quelli più superficiali girando nelle loro città vedono e conoscono cose che altri non s’immaginano nemmeno… A mio avviso, dunque, lo spread artistico dovrebbe essere un nuovo parametro da mettere sul tavolo della valutazione. Altrimenti corriamo il rischio di nuovi Neanderthal…

Di cosa ha veramente paura Vittorio Marchis?

Di avere, e guardo anche ai miei figli che  stanno entrando in un mondo del lavoro che non li riesce ad accettare perché sono nel precariato più precario possibile, un futuro non più gestibile in maniera autonoma. Ho paura di diventare suddito culturalmente, non economicamente, di altre realtà. Ed è per questo che ho scelto da ingegnere di diventare storico, di imbracciare una lancia e andare un po’ come Don Chisciotte contro chi ritiene che solo il progresso vada a finire nell’alto livello scientifico. Un paese non deve tanto preoccuparsi di avere un premio Nobel in più o in meno, ma deve preoccuparsi di innalzare il livello culturale di base. Solo in questo modo si riesce a convincere tutti che si deve andare avanti, che ci sono dei valori da mantenere e che non sono solo quelli della tecnica ma anche quelli del saper raccontare le cose e di non prendere per il naso il pubblico. Questo mi fa veramente paura. Vedere che da 15 anni si continua a rimanere dentro questi spazi angusti, nonostante ci sia una grande attenzione da parte dell’esterno, significa che chi tiene le mani sulle manopole che governano il nostro paese forse è ancora illuso che queste siano cose superficiali. E che il tutto non debba essere conservato perché casomai occupa spazio, perché è pesante, perché prende polvere… Ma noi siamo fatti di polvere…

A cosa, invece, non saprebbe rinunciare?

A uno spazio dove esprimere i miei sentimenti. Può essere un giornale dove scrivere oppure una tela su cui dipingere…

A proposito, un ingegnere meccanico che dipinge non è roba da tutti i giorni…

Per me la pittura è un modo per esprimere stati d’animo e pensieri. Mi serve a lanciare messaggi che devono essere concreti e non, invece, voci perse nel vento. Messaggi che devono ricordare, a me e agli altri, che esiste qualcosa su cui dobbiamo soffermarci a pensare. Un quadro, un dipinto, uno schizzo, uno scarabocchio non hanno bisogno di cultura, di conoscere le lingue straniere, non hanno bisogno di niente. Di fatto hanno un linguaggio universale.

Quale è la caratteristica del suo pennello?

I miei quadri, dal nero al bianco, sono tutti giocati sulla memoria che non è mai qualcosa di completamente definito bensì è fatta a brandelli. Per me la memoria può essere un piano bianco o un piano nero su cui ci sono piccoli pezzi intorno ai quali, però, noi possiamo raccontare delle storie. E quando ad esempio prendo un frammento di giornale che era destinato a finire nella spazzatura e lo faccio diventare parte della memoria, ecco che torna a rivivere e a ritrovare quei legami con una storia passata.

Se domani fosse il suo ultimo giorno, come lo trascorrerebbe?

Con i miei cari. L’intera giornata senza perdermi neanche un minuto a fianco della mia famiglia.

Che rapporto ha con la fede?

Sono credente, cattolico e quindi capisco che essa rappresenti una dimensione essenziale nella nostra vita. La mia visione dell’uomo è quello di un tetraedro, una piramide a base triangolare dove c’è l’uomo sapiens, l’uomo faber, l’uomo ludens ma c’è anche l’uomo sacer. E questo tetraedro per stare su un tavolo deve essere appoggiato su una base. Spesso, però, noi appoggiamo la base che meno ci interessa…

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