il DIAVOLO e L’ACQUA SANTA…

By Stefano Pallotta
Pubblicato il 17 Maggio 2015

Programmare lo sviluppo significa fare scelte: favorire alcuni settori produttivi al posto di altri. Significa anche che le poche o le molte risorse a disposizione devono essere concentrate per sostenere quei settori che si vogliono portare a diventare i motori dell’azione economica. Non si possono disperdere le forze, esse devono essere convogliate verso l’obiettivo che si intende raggiungere.

Già, l’obiettivo. Qual è quello che si vuole raggiungere in Abruzzo? La domanda si pone forte non solo all’attenzione delle forze sociali e politiche ma dovrebbe riguardare tutta la popolazione. È vero che si elegge una classe politica sulla base dei programmi e della visione dello sviluppo che presenta alla pubblica opinione. È altrettanto vero che una volta eletta e formata essa, la classe politica, dovrebbe poi agire di conseguenza e quindi attuare i propositi per la quale è stata scelta.

Ma sappiamo quali sono stati i programmi e quali le intenzioni, per esempio, dell’attuale ceto dirigente regionale? Sì, qualcuno potrebbe rispondere affermativamente, ma probabilmente si tratta di qualche addetto ai lavori, taluni che la politica la masticano tutti i giorni se non proprio di mestiere.

Ma veniamo al dunque. Fino a qualche anno fa l’Abruzzo veniva presentato come la “Regione verde d’Europa”, la “Regione dei parchi”: tre parchi nazionali, un parco regionale è una miriade di oasi e riserve naturali. Sembrava di assistere a una sorta di liturgia ambientale se non proprio a una mistica della natura in connubio indissolubile con lo sviluppo economico. Si diceva: difendere la natura e lo sviluppo sostenibile equivale alla ricchezza dell’Abruzzo. Così non è stato ma non per colpa del progetto ma per il fatto che non si è stati in condizione di perseguirlo fino in fondo. Perché nel frattempo in Abruzzo si è continuato a inquinare il suolo e il sottosuolo; la lotta al bracconaggio non è mai stata una priorità; lo sfruttamento delle risorse fossili del sottosuolo non ha subito alcun rallentamento; l’agricoltura ha continuato a rappresentare la cenerentola dell’economia; parchi, riserve e oasi sono stati lasciati senza risorse, nemmeno quelle per pagare il personale.

Oggi siamo alle solite: roboanti parole sullo sviluppo sostenibile, un gran vociare sulla salubrità dei prodotti enogastronomici, paginate intere sui prodotti di nicchia legati alle politiche di difesa del territorio, ma nella realtà le cose vanno in maniera diversa. Nessuno, salvo i soliti noti (ambientalisti e qualche politico in cerca di autore) che si batta concretamente contro i molti diretti  o surrettizi tentativi di consentire lo sfruttamento delle risorse fossili nel mare a pochi chilometri dalla costa dei trabocchi, un parco rimasto sulla carta, dai confini incerti e dall’altrettanto insicuro destino. Nessuno che dica, finalmente, che la scelta dell’Abruzzo non può essere quella di mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, ossia le centrali a biomasse su un territorio agricolo che rappresenta un quarto del prodotto interno lordo abruzzese, come quello del Fucino. È l’errore di sempre: difesa a parole dell’ambiente e di tutto ciò che può significare lo sviluppo economico ad esso legato (e qui occorrerebbe un’avversativa per spiegare quello che in realtà avviene, ma mi fermo).

Dico solo, e concludo, che per uno sviluppo sostenibile dell’economia abruzzese bisogna crederci negli anni ed esso non può essere legato alle altalenanti sorti delle compagini politiche che, per logica e forza di cose, sono portatrici di soluzioni ibridanti in economia. E non è detto che sia un male, ma allora riconosciamolo e comportiamoci di conseguenza.

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