ECCO IL MIRACOLO DI WOJTYLA…
“Sulla base degli esami – afferma il PROFESSOre attualmente in servizio all’istituto clinico Humanitas di Milano, docente al Campus bio-medico di Roma e neurochirurgo della Città del Vaticano – firmai una relazione dove evidenziavo l’inspiegabilità scientifica e biologica della completa guarigione clinica e, soprattutto, della risoluzione spontanea dell’aneurisma che aveva colpito una signora del Costa Rica”. Oltre 15 mila interventi e tra i suoi pazienti anche i presidenti Scalfaro, Andreotti e Cossiga La dedica del suo bellissimo libro, Ti regalo le stelle (Se-dizioni, Diego Dejaco Editore, pp.191, euro 20,00) ha due destinatari: i suoi familiari – la moglie Carla e i figli Marco e Matteo – e i suoi numerosi pazienti. I primi, per avergli insegnato il significato del vero amore, gli altri per avergli fatto scoprire il senso della vita. Lui è Giulio Maira, professore di fama internazionale, vero e proprio luminare nel campo della neurochirurgia. Un fenomeno assoluto del bisturi, ricercatore sopraffine e professionista dal sapere sconfinato, come ci racconta lo score professionale. Una formazione maturata nei più prestigiosi centri di neurochirurgia del pianeta; oltre 15 mila interventi con una percentuale altissima di esiti positivi; più di 62 mila persone visitate e una miriade di consulti in tutto il mondo. Ma al di là di questi numeri incredibili e di altri contenuti nella breve biografia riportata in queste pagine, il professor Maira ha dalla sua una vita contrassegnata dalla presenza di Dio, quella luce che rappresenta il senso dell’essere uomo.
Sin da bambino, con nonno e papà “discendenti” di Ippocrate, ha respirato la sofferenza, la fragilità, lo smarrimento di chi è malato. Con il tempo ha imparato a immedesimarsi in loro cercando, però, di mantenere il più possibile, come giusto che sia, una distanza di sicurezza. In pratica ha mantenuto socchiusa la porta del cuore in modo da evitare di essere travolto dai sentimenti. Insomma, un mix difficilissimo di distacco e partecipazione per non perdere la lucidità in una professione così delicata. Ha pianto con l’anima insieme ai pazienti condividendone il dolore ma nello stesso tempo quella sofferenza gli ha offerto, quotidianamente, lo stimolo giusto per vincere o comunque combattere fino alla fine la malattia che di volta in volta lo sfidava… Ma facciamo un passo indietro. Una sera, da bambino, mentre era con i suoi amici dell’oratorio, si fermò con il naso all’insù a osservare la neve che cadeva candida e leggera dal cielo. E dinanzi a quello spettacolo della natura s’interrogò sul suo futuro. Oggi, a distanza di tanti anni, quel bambino diventato un professionista di spessore internazionale, ha scelto di darsi una risposta. Come tutti gli essere umani, ancor di più, aggiungo io, i medici, ha avvertito l’esigenza di tirare una linea su un foglio bianco e fare un bilancio della propria esistenza avendo maturato la capacità di osservare le cose dall’esterno. Un foglio, però, non era sufficiente; ecco, allora, che una dietro l’altra pian piano le pagine hanno dato vita a un’appassionante testimonianza di vita. Un percorso lungo e faticoso disseminato sì di dolori e momenti difficili, ma anche ricco di soddisfazioni. E in cima a tutte c’è quella derivante dall’essere entrato in empatia con i suoi tanti pazienti, ricevendo indietro uno straordinario insegnamento di vita e un’estimabile pace interiore. L’umanità e la sensibilità offerte ai pazienti gli hanno fatto conoscere la vera felicità dell’anima. Dicevamo dei suoi tanti interventi chirurgici: pazienti sconosciuti, statisti, sportivi, personaggi illustri. Ha messo le sue preziose mani nel cervello di tanti e lo ha fatto sempre al massimo delle sue enormi capacità. E nei casi in cui ha vinto la malattia era stata la scienza ad arrendersi…
Giulio Maira vive a Roma ma spesso altrove, in Italia e all’estero, c’è bisogno delle sue mani prodigiose e del suo sapere. Attualmente è neurochirurgo Senior Consultant presso l’istituto clinico Humanitas di Milano, professore di Neurochirurgia al Campus Bio-Medico di Roma e neurochirurgo della Città del Vaticano. Nonostante i ritmi infernali dettati dalla professione, il professor Maira non si è sottratto al mio invito. Dopo un’intensa mattinata trascorsa in sala operatoria a Milano mi ha dato appuntamento nel pomeriggio a casa sua. Sì, nel rifugio più intimo dove grazie all’affetto dei suoi famigliari ricarica le batterie sospingendo via tensioni e tristi pensieri. Restiamo quasi due ore a chiacchierare e la sua disponibilità è a dir poco ammirevole. Quando spengo il registratore la capitale ha già acceso le luci e io mi sento un po’ in colpa per aver sottratto così tanto tempo al suo riposo. D’altra parte, però, il cervello è un mistero affascinante, di conseguenza solo uno sopraffine può darci una mano a conoscerlo meglio…
Professor Maira, perché la necessità di riavvolgere il nastro della sua vita…?
Quando si fa un lavoro impegnativo e di grande responsabilità che ti mette a confronto con tante persone e problematiche, arriva un momento in cui si avverte l’esigenza di fermarsi a riflettere. E mettere tutto nero su bianco può essere una cosa utile per me e per gli altri.
Quali ricordi di gioventù sono rimasti indelebili?
Intanto gli anni vissuti con mio padre. Lui era un chirurgo e dirigeva la clinica Maira fondata da mio nonno. All’epoca ero un bambino e seguire mio padre nell’attività di tutti i giorni era particolarmente interessante. Anche perché la medicina, avendola respirata a pieni polmoni in famiglia, mi ha sempre attratto. Vivere da adolescente le esperienze di un medico ed entrare un po’ nei segreti della chirurgia o della medicina in generale sono cose che inevitabilmente lasciano il segno.
Ma cosa spinge un giovane medico a innamorarsi della neurochirurgia?
Intanto la passione per il cervello, la voglia di studiare qualcosa di molto complesso. E poi il desiderio di dedicarsi agli altri.
Quanto è difficile spiegare il mistero del cervello umano?
La parola mistero è più che mai appropriata. Pensare che milioni di miliardi di cellule possano coesistere e lavorare assieme è un qualcosa di stupefacente. Che da un insieme di cellule escano fuori pensieri, riflessioni, sentimenti, emozioni… La scienza sta facendo di tutto per cercare di capire come sia possibile questo miracolo. Tante cose si capiscono, altre probabilmente non avranno mai risposta. Una cosa, però, è certa: questo grande mistero solamente il cervello stesso potrà svelarcelo…
Professionalmente ha trovato risposta a ogni domanda?
Assolutamente no, anche perché del cervello non conosciamo tutto. Anzi, riguardo alle tante malattie e la loro complessità siamo dinanzi a una vera e propria prateria sconosciuta… Ecco, allora, l’importanza della ricerca e dell’impegno che di fatto hanno contrassegnato la mia vita. È un nostro dovere e un obbligo, nei confronti dei pazienti e di chi verrà dopo di noi, portare avanti le conoscenze sulle malattie.
La neurochirurgia negli ultimi anni, come altri campi della medicina, ha fatto passi importanti…
Assolutamente sì. Se faccio un raffronto con quella dei miei inizi parliamo veramente di un altro mondo… I cambiamenti sono stati numerosi e stravolgenti.
Tecnologia e bravura del chirurgo: quali percentuali assegnerebbe all’una e all’altra?
Diciamo che l’abilità manuale in genere incide moltissimo. Ad esempio esistono alcuni interventi di neurochirurgia che non tutti sono in grado di effettuare. Mi riferisco a quelli che hanno una particolare difficoltà tecnica e che non sono alla portata di tutti proprio perché, oltre allo studio, alla preparazione e all’impegno necessitano anche di una manualità specifica del chirurgo. Non dimentichiamoci, però, che la tecnologia in questi anni ha apportato un contributo fondamentale. Le scoperte della scienza consentono di avere tecnologie nuove che, a loro volta, permettono alla scienza di andare avanti.
Le è mai capitato di vivere un forte contrasto interiore tra il desiderio di regalare comunque una piccola speranza e l’evidenza scientifica?
Uno vorrebbe sempre poter dire al malato sì, ti puoi curare, dargli una speranza a cui aggrapparsi… Tante volte, però, bisogna avere la razionalità, la lucidità e la freddezza di confrontarsi con la realtà, ovviamente limitandoci alle risposte della scienza… In quel caso, allora, anche un trattamento eccessivo può rivelarsi pesante e soprattutto inutile.
Ha vissuto casi che non lasciavano speranze, e viceversa, che invece hanno avuto un epilogo inaspettato?
Assolutamente sì, in medicina non sempre tutto è prevedibile. Abbiamo avuto diversi casi di persone giunte con gravi traumi cranici, con emorragie cerebrali importanti, con condizioni neurologiche estremamente delicate dove la prognosi era complicatissima… Sopravviverà? Una volta sveglio riprenderà un’attività normale? In quel caso bisogna aggrapparsi alla scienza. La conoscenza scientifica e l’interpretazione esatta degli esami diagnostici devono dirci con precisione se dobbiamo andare avanti e quindi operare, oppure fermarci perché non c’è più niente da fare. Questo è il limite tra l’inutilità della cura e la cura, tra il malato terminale e quello che sembra esserlo ma che invece ha delle potenzialità di ripresa e per il quale bisogna impegnarsi al massimo.
Un confine particolarmente labile che può nascondere non poche insidie…
Assolutamente d’accordo. Ho avuto tanti malati per i quali si pensava non si potesse far nulla e che hanno avuto una ripresa incredibile. Ma anche casi che lasciavano presupporre sviluppi positivi e che invece hanno avuto un finale inaspettato… In questi casi, oltre alla tecnologia e quindi alla diagnostica c’è dunque bisogno dell’esperienza. In medicina riveste un ruolo importantissimo, per questo ci vogliono dei buoni maestri, persone in grado di insegnare e trasmettere anni e anni di lavoro.
Infatti il suo bellissimo libro va proprio in questa direzione…
Proprio così. È uno dei motivi che mi hanno spinto a realizzarlo. Cercare cioè di trasmettere, ai giovani che sceglieranno la neurochirurgia o comunque il mondo della medicina, il senso del ragionamento, della ricerca, l’importanza dell’umanità, dell’impegno, della fatica fisica e mentale. Tutte cose che si acquisiscono con la maturità. Dieci anni fa probabilmente questo libro non sarei stato in grado di scriverlo, addirittura non avrei avuto neanche l’idea…
Tornando al confine sottile a cui facevamo riferimento, per chi ha fede, comunque, ci sono sempre i miracoli…
Per carità, un medico credente può anche pregare affinché il paziente si salvi e che l’intervento riesca… Però in sala operatoria può confidare solo sulla scienza e su se stesso visto che in quel caso rappresenta un mezzo della scienza. Da credente, ovviamente, ritengo che i miracoli esistano…
Nel 2012, infatti, nell’ambito della consulta medica della congregazione per le cause dei santi le chiesero una valutazione su una presunta miracolata. L’autore del miracolo era papa Wojtyla…
Riguardava Floribeth Mora Diaz, una donna 47enne del Costa Rica la cui guarigione era stata attribuita a un intervento di Giovanni Paolo II. La signora aveva avuto un’emorragia cerebrale causata dalla rottura di una malformazione vascolare. In Costa Rica non erano presenti neurochirurghi in grado di operarla per quella particolare malformazione di conseguenza la paziente era stata mandata a casa. Avrebbe dovuto farsi operare altrove oppure vivere alla giornata sperando che il tutto non degenerasse.
Quali erano i rischi?
Aveva un’alta probabilità di andare incontro a un secondo sanguinamento dagli effetti neurologici molto gravi, oppure di evolvere verso una trombosi che avrebbe coinvolto anche il vaso portante, con conseguenze deleterie.
Praticamente un destino quasi segnato. Invece…
I familiari della donna avevano pregato intensamente Giovanni Paolo II perché proprio in quei giorni si celebrava la beatificazione del pontefice polacco. A distanza di qualche mese, dunque, tornata in ospedale per un controllo, la signora con grande stupore dei medici, risultò perfettamente guarita. La mal-formazione era sparita…
La documentazione esaminata chiarì subito ogni suo dubbio?
Il caso sembrava particolarmente intrigante ma la qualità degli esami effettuati non mi sembrava in grado di fornire certezze assolute. Così, d’accordo con il Vaticano, convocai a Roma la donna sottoponendola a numerosi esami approfonditi per verificare l’integrità dei vasi e l’anatomia di quell’area in cui vi era l’aneurisma.
Cosa venne fuori?
L’arteria che prima era sede della dilatazione fusiforme era tornata perfettamente normale, l’aneurisma era scomparso e i rami arteriosi erano tutti riconoscibili…
Un miracolo…
Sulla base degli esami firmai una relazione dove evidenziavo l’inspiegabilità scientifica e biologica della completa guarigione clinica e, soprattutto, della risoluzione spontanea dell’aneurisma. Naturalmente l’intera consulta medica giunse alla mia stessa conclusione. Così, attraverso questi dati, esclusivamente medici, la commissione teologica stabilì un rapporto tra le invocazioni e le preghiere rivolte a Giovanni Paolo II e l’inspiegabile guarigione.
Immagino la sua soddisfazione…
La decisione mi riempì di gioia, anche se per me Karol Wojtyla non aveva bisogno di quel miracolo. Tutta la sua vita, infatti, profumava di santità…
Lei da oltre vent’anni ha rapporti professionali con il Vaticano. Quale fu il suo primo pensiero quando lo scorso ottobre un quotidiano diffuse la notizia di un presunto tumore al cervello di papa Francesco?
Fu sconvolgente, anche perché in qualche modo mi hanno tirato dentro in maniera subdola…
Cioè?
In quei giorni ero negli Stati Uniti per un convegno e una mattina ricevetti la telefonata di una giornalista che conoscevo e alla quale, in passato, avevo rilasciato alcune interviste. Voleva conoscere il mio parere in merito ai tumori cerebrali e così, in un momento di pausa, risposi ad alcune domande generiche. La notte successiva, però, fui svegliato dal trillo continuo del mio cellulare. Erano giornalisti, amici e colleghi che volevano notizie sulle condizioni di papa Francesco…
E lei?
Ignaro di tutto, chiesi il perché di quella domanda. Fu allora che venni a sapere che un quotidiano aveva sparato a tutta pagina la notizia della presunta malattia del papa e, a fianco, un altro articolo con una mia fotografia e un titolo che più o meno recitava così: “Il neurochirurgo: Se è benigno si può guarire”. Una scorrettezza inaudita che, fortunatamente, ho immediatamente chiarito con il Vaticano.
Un comportamento che lascia senza parole…
Una vicenda assurda che mi creò non pochi imbarazzi. Messa così, infatti, l’intervista si prestava a due considerazioni…
Ossia?
Ero veramente a conoscenza della situazione e quindi avevo raccontato cose che sarebbero dovute rimanere segrete, oppure ero all’oscuro di tutto però stavo sfruttando la presunta malattia del papa per fini personali…
Una volta metabolizzato il tutto cosa ha fatto?
Ho immediatamente chiamato padre Federico Lombardi, il direttore della sala stampa del Vaticano, raccontandogli come erano andate realmente le cose. La mia intervista prescindeva totalmente dalla conoscenza di qualche presunta patologia a carico di papa Francesco.
Alla fine di questa triste storia, soprattutto per la nostra categoria, quale idea ha maturato?
Non ho avuto ulteriori notizie in merito, né sono stato mai interpellato per un eventuale consulto medico. Per quanto ne so la notizia era assolutamente priva di fondamento. Tant’è che anche il presunto consulto con il neurochirurgo giapponese Takanori Fukushima, riportato dal quotidiano, alla fine si è rivelato essere un falso come successivamente smentito dallo stesso specialista.
Visto che siamo in tema, oggi qual è la risposta della scienza nella cura dei tumori al cervello?
Attualmente nei casi di tumori benigni la neurochirurgia può fare tantissimo, consente di dare soluzioni a malattie che anni fa erano totalmente incurabili. Avere un tumore di per sé non è un qualcosa di grave, bisogna vedere che tipo è e quale sede del cervello occupa. Dai tumori benigni, se sono operabili, si guarisce.
E quelli maligni?
Se sono in sedi in cui l’intervento non provoca grossi danni neurologici anch’essi sono operabili. Il problema è che malgrado si facciano interventi chirurgici perfetti tende a riformarsi. Per questo è importante la ricerca. A tal proposito nel 2001 ho costituito la Fondazione Atena Onlus, con l’obiettivo di promuovere la ricerca nel campo delle Neuroscienze e migliorare la cura di alcune malattie per le quali ancora non esistono terapie efficaci.
Nella sua lunga e prestigiosa attività ha operato tanti personaggi famosi, dal mondo della politica a quello dello sport e dello spettacolo. Tra questi anche l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro…
Era affetto da un adenoma all’ipofisi e con lui, come anche con altri, si era creato un rapporto di grande stima, affetto e amicizia.
Ci racconta un aneddoto?
Una volta era in visita di stato in Belgio e l’allora ambasciatore italiano a Bruxelles era un mio caro amico. Sapendo dunque del rapporto che avevo con il presidente mi invitò al ricevimento in ambasciata. Incontrai Scalfaro in un corridoio, stava recandosi a un incontro privato in una sala dell’ambasciata. Era insieme al ministro degli Esteri belga e a tutti i più importanti rappresentanti della Comunità Europea e della Nato. Con grande sorpresa, allora, mi prese sottobraccio chiedendomi di accompagnarlo. Io credevo solo per un tratto…
Invece?
Entrammo nella stanza dove si sarebbe dovuta tenere una riunione assolutamente privata e mi fece sedere accanto a lui… Sapevo benissimo che non poteva essere quello il mio posto, però non riuscivo ad andare via in quanto il presidente mi teneva stretto al suo braccio… Inevitabilmente si creò una situazione imbarazzante, a causa della mia presenza, infatti, nessuno parlava…
Come ne venne fuori?
Il presidente si allontanò un attimo e io lasciai immediatamente la stanza. La sera, poi, ci rincontrammo al ricevimento e lui, con tono rammaricato, mi riprese con queste parole: “Professore, ma perché mai oggi pomeriggio mi ha lasciato solo…?
Ci racconta, invece, cosa le disse l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti subito dopo l’intervento chirurgico?
Operato anche lui per un adenoma all’ipofisi, smaltita l’anestesia, mentre gli spiegavo l’intervento mi guardò e disse: “Professore, ma sa che lei è l’unica persona al mondo che veramente può affermare che io il cervello ce l’ho?”.
Lei cosa rispose?
Sono a sua disposizione, quando vuole una testimonianza, orale o scritta, può chiamarmi…
Ancora un ex presidente della Repubblica: anche Francesco Cossiga finì sotto i suoi bisturi…
Lui aveva una compressione midollare. Anche con lui nacque una bellissima amicizia, tanto che si era proposto come testimone alle mie nozze. Purtroppo, però, quel giorno lui non c’era più… È stato un grande rammarico e una grande perdita.
Lei ha operato anche il giornalista Lamberto Sposini, vittima di un’emorragia cerebrale. Un caso finito all’attenzione della cronaca giornalistica e giudiziaria…
Mi spiace dirlo ma questo episodio, purtroppo, non è uno spot positivo per l’organizzazione sanitaria…
Cosa accadde?
Quando fui allertato mi trovavo a Firenze, ma una volta rientrato a Roma in macchina lui era ancora in giro per gli ospedali… C’è stato un evidente ritardo. Giunto al Gemelli, infatti, provammo immediatamente a togliere quel grosso ematoma che gli aveva causato uno stato di coma che, nel giro di poche ore, lo avrebbe portato alla morte… Oggi lui si è riappropriato della vita familiare, ha visto crescere sua figlia ed è in grado di avere rapporti con le persone. Purtroppo non è riuscito a recuperare a tal punto da continuare il suo lavoro di giornalista.
Ma se fosse stato operato subito oggi avrebbe comunque quel deficit che lo ha costretto ad abbandonare la professione?
Chi lo sa, in questi casi non ci sono mai le controprove… È altrettanto vero, però, che quando si parla di cervello il tempo gioca un ruolo fondamentale. Sappiamo benissimo, infatti, che più il cervello rimane danneggiato meno sono le capacità di recupero… In teoria, dal punto di vista vascolare quando c’è un ictus o un’emorragia prima si opera meglio è. Ovviamente ogni singolo caso va valutato.
Nel dicembre del 2014, invece, sul suo tavolo operatorio è finito il forte difensore brasiliano della Roma, Leandro Castan, a cui ha rimosso un cavernoma. Tornato in campo dopo un lungo stop, attualmente sta attraversando un periodo professionale poco felice… Cosa si sente di dire al popolo giallorosso?
Dal punto di vista medico lui sta benissimo, ha superato brillantemente un intervento impegnativo con assoluto coraggio e grande forza morale. Anche dal punto di vista atletico credo abbia ripreso completamente. Io non faccio l’allenatore, da profano però credo che debba essere impiegato in maniera graduale in modo da recuperare, con calma e nel modo migliore, i cosiddetti novanta minuti. Lui è un atleta e una persona veramente speciale a cui sono molto affezionato.
Nessun blocco psicologico quindi?
Assolutamente no, Leandro lo sento spesso ed è completamente guarito sotto ogni punto di vista. Ha bisogno solamente di un reinserimento graduale all’attività sportiva. Conosco tanti ragazzi con la stessa patologia di Castan e uno di questi, giorni fa, mi ha confessato di essersi deciso a farsi operare dopo aver visto la ripresa del giocatore della Roma… Ecco, allora, che casi come quello del difensore giallorosso in qualche modo diventano esempi importanti per affrontare un’eventuale malattia e soprattutto per superarla. Magari per quei ragazzi che, evitando per paura l’operazione, rischiano la vita…
Che sensazioni si è portato dietro dal viaggio compiuto in India nel 2001 nell’ospedale di Madre Teresa di Calcutta?
Forse una maggiore umanità anche se la vita del medico ti porta già a sviluppare un senso di solidarietà e misericordia verso chi sta male e soffre. Toccare però con mano la sofferenza delle malattie gravi, con scarsa o addirittura senza alcuna possibilità di cura ed entrare nel mondo di dedizione di queste suore che donano la loro vita per gli altri è stato un qualcosa che mi ha fatto sentire molto piccolo…
Calcutta, però, non è purtroppo solo in India…
In effetti una volta a Roma mi sono reso conto che anche qui c’è gente che soffre, che ha problemi e che ha bisogno di qualcuno che offra loro una cura e tanta umanità.
Senta professore, ma in medicina scienza e coscienza camminano sempre di pari passo?
Dovrebbe essere assolutamente così…
Però…
C’è chi, ad esempio, studia e si specializza per creare nuove droghe e arricchirsi, oppure nuove armi nucleari per vincere una guerra, e così via… La coscienza dell’uomo, invece, deve far sì che la scienza vada di pari passo con il senso morale ed etico, nel pieno rispetto dell’altro.
Da credente le capita mai di pregare prima di un intervento?
Alcune volte è accaduto, anche perché ho coscienza del mio limite, non credo di essere infallibile e capace di osare qualunque cosa. Anche se talune volte il chirurgo deve fare cose che vanno al di là della semplice routine… In quei casi, allora, una preghiera, un pensiero religioso intimo o il semplice tocco di questo rosario che porto sempre al polso e che ho acquistato in un fantastico viaggio a Medjugorje, può sicuramente aiutarmi…
Quali pensieri affollano la sua mente prima di un’operazione chirurgica?
L’intervento chirurgico resta sempre un discorso molto umano, però nel momento in cui ci si prepara a operare, una volta stabilita la strategia chirurgica, resta solo il problema tecnico. Quella è la battaglia da vincere. Mentalmente, quindi, mi ripasso l’intervento, guardo e riguardo le immagini, controllo il malato. E poi ho una sorta di rituale che riguarda la vestizione, il lavaggio delle mani e così via. Una ripetitività che serve anche a concentrarsi, come ad esempio il riscaldamento di un calciatore prima di entrare in campo.
Degli oltre quindicimila interventi eseguiti sino ad oggi, ne ricorda uno in particolare?
Ce ne sono tantissimi… Intanto non dimenticherò mai il mio primo intervento. Ero al primo anno di specializzazione e quel giorno per una serie di circostanze mi sono trovato a essere il responsabile della neurochirurgia del Gemelli. Un reparto appena nato e quindi con poco personale. Chiamai il mio professore che era fuori Roma dicendogli che c’era una bambina di 8 anni con un’emorragia cerebrale…
Cosa le rispose?
La operi, lei sa farlo… In effetti avevo trascorso alcuni anni in un laboratorio di chirurgia sperimentale, inoltre avevo visto operare mio padre e tanti altri chirurghi… Diciamo che mentalmente ero pronto, però in simili situazioni ci vuole coraggio, anche se un’alternativa non c’era. Senza operazione, infatti, la bambina sarebbe morta sicuramente. All’epoca, inoltre, non era così facile trasferire un malato e soprattutto non c’era neanche tempo in quanto l’emorragia in corso stava peggiorando rapidamente il quadro clinico. L’intervento fortunatamente andò bene. Un altro ricordo, invece, mi riporta alla più lunga ed estenuante operazione eseguita: iniziò alle otto del mattino per terminare alle tre del pomeriggio del giorno dopo… Oltre trenta ore, una maratona incredibile. Si trattava di un enorme angioma cerebrale che continuava a sanguinare… Come dicevo, la neurochirurgia oltre che passione è anche molta fatica.
Quali sono oggi le patologie più frequenti?
Purtroppo i tumori si contano in gran numero.
È vero che spesso sono asintomatici, non mandano segnali…?
Alcuni lo sono, d’altra parte il cervello è un organo che ha una grande capacità di adattamento. Tante volte troviamo dei tumori incredibili, di 5-6 centimetri e il paziente fino al giorno prima era asintomatico… Il cervello è come un elastico che si tira, prima o poi si romperà. Ma quando? In qualche caso si manifestano delle piccole crisi epilettiche e quindi la diagnosi si fa prima mentre in altri il tumore è localizzato vicino alle aree cerebrali importanti e i sintomi, allora, sono evidenti.
Altre malattie?
Ci sono quelle vascolari, le emorragie cerebrali, l’ictus, gli aneurismi intracranici che rappresentano un altro campo della neurochirurgia particolarmente complesso. E poi ancora le malformazioni congenite. Per quanto invece concerne la neurologia sicuramente ai primi posti ci sono le malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, il Parkinson e le varie forme di demenza che rappresentano un grosso problema in quanto si prevede un incremento numerico notevole nei prossimi anni. L’Alzheimer, ad esempio, è legato all’invecchiamento quindi con l’allungamento della vita ci saranno più malattie neurodegenerative e più forme di tumore.
In questo caso la risposta farmacologica, ad oggi, come può essere considerata?
Per quanto concerne l’Alzheimer, purtroppo, attualmente non vi sono cure risolutive. Questo perché non si conosce esattamente la malattia. Inoltre i lievi segnali dell’Alzheimer cominciano molto tempo prima e spesso passano inosservati… È una malattia subdola e nel momento in cui diventa conclamata le alterazioni cerebrali, cioè il deposito delle placche amiloidi tra i neuroni del cervello, sono già diffuse. Sempre che sia questa la vera causa dell’Alzheimer…
Alcol e droga. Da sempre lei si adopera per sensibilizzare il mondo giovanile nei confronti di queste vere e proprie emergenze sociali. Che effetti generano al cervello?
Sicuramente danni gravi. Per quanto concerne le droghe è bene ricordare che basta anche una sola pillola per causare un’emorragia cerebrale, un infarto oppure un ictus… L’uso prolungato di qualsiasi tipo di droga, poi, danneggia aree del cervello molto importanti, come ad esempio quella prefrontale dove ha sede la nostra coscienza, la consapevolezza, la capacità di reagire in modo logico a tutto quello che ci viene dal mondo. C’è poi l’area deputata all’emotività e quindi chi si trova sotto l’effetto della droga resta vittima di reazioni eccessive, spropositate. Inoltre le droghe intaccano anche l’ippocampo che è l’area della memoria. Diciamo, quindi, che viene modificata profondamente la personalità degli individui. È bene, inoltre, che soprattutto i giovani sappiano che anche la cannabis e la marijuana hanno effetti negativi a livello cerebrale. L’uso ripetuto di queste sostanze danneggia infatti alcuni ricettori cerebrali che sono importanti, soprattutto durante lo sviluppo.
Fino a che età il cervello completa la sua maturazione?
Il cervello si sviluppa lentamente, generalmente la maturazione avviene intorno ai 20/22 anni quindi c’è un lungo periodo della vita in cui ricostruisce le sue reti sinaptiche permettendo alle funzioni cerebrali di esplicarsi al massimo. Sono proprio quelli, pertanto, gli anni più fragili in cui tutte le droghe possono incidere e quindi impedire che la maturazione avvenga in maniera ottimale. Sottoporsi all’effetto delle droghe significa rischiare di compromettere lo sviluppo cerebrale che poi sarà fondamentale per la vita futura di ognuno di noi.
Lo stesso discorso vale per l’alcol?
Sì. Oggi c’è l’abitudine di fruire dell’alcol non tanto per socializzare – un solo bicchiere di vino, infatti, è importante, consente di trascorrere con maggiore allegria e spensieratezza una serata – bensì per raggiungere il cosiddetto sballo, perdere cioè la consapevolezza di quello che accade attorno a noi. Tutto ciò è pericoloso per sé e per gli altri. Penso ad esempio a chi, ubriaco, si mette alla guida, alle tante stragi del sabato sera… Si tratta di una sorta di epidemia culturale che non può essere curata con alcun farmaco…
Come se ne esce allora?
Con la cultura e la conoscenza. Ad esempio a Roma, insieme alla Regione e a Michele Baldi, capogruppo della lista civica Zingaretti, abbiamo realizzato un dvd che raccoglie una conferenza fatta su questa materia. È stato distribuito in tutte le scuole e i presidi lo hanno messo in visione per gli studenti. Anche se un solo ragazzo di ogni scuola, ripensando a quel filmato dicesse no a una pasticca o a un superalcolico, sarebbe già un buon risultato…
Prima parlavamo di scienza e coscienza che dovrebbero camminare di pari passo, ma nella direzione giusta. Dietro la vendita di pasticche di droga, invece, c’è lo studio di tanti laboratori…
Esattamente, si tratta di una vera e propria aberrazione umana. Il messaggio che cerco di trasmettere ai ragazzi è questo: Chi vi offre la droga non è un benefattore dell’umanità bensì un appartenente alla malavita organizzata che vuole semplicemente sfruttarvi per arricchirsi. Oggi la quantità di droghe di cui non si conosce la composizione sintetica è altissima, ciò comporta il rischio che in caso di intossicazione non si possa fare una diagnosi e quindi trovare l’antidoto da somministrare… Ripeto: una sola pasticca di ecstasy provoca un altissimo aumento di pressione arteriosa e un danno vasale che possono generare un’emorragia cerebrale oppure un infarto del miocardio.
Parlando di futuro, è fantascienza pensare a un trapianto di cervello?
Assolutamente sì, è già difficile il trapianto di un nervo… Chi lo afferma non sa quel che dice…
Professore, prendendo spunto dal bellissimo libro When breath becomes air (Quando il respiro diventa aria), le memorie postume di un giovane talentuoso neurochirurgo americano, Paul Kalanithi, che un giorno scopre di avere un tumore incurabile ai polmoni, quali cose, a suo avviso, danno un senso alla vita anche di fronte alla morte?
Sicuramente la bellezza della vita stessa, gli affetti, le emozioni. Tutti sappiamo che si tratta di una vita a termine, di conseguenza ognuno deve avere una propria filosofia. Chi ad esempio ha la religione crede nell’aldilà; altri, invece, ritengono che tutto abbia fine con la morte e quindi affrontano la vita con concetti e filosofie differenti. Certamente avere la fede e quindi credere nella vita eterna offre un senso di speranza maggiore.
Le fa paura la morte?
Direi di no…
Forse perché non ha tempo di pensarci…
No, ci penso, anche perché quando si va in là con gli anni diventa inevitabile… Tutto sommato, però, ho avuto la fortuna di avere una vita estremamente positiva, piena di dolori e di momenti difficili ma anche di sorrisi e gioie. Il bilancio che ne viene fuori, quindi, è fortemente appagante.
Non ha rimpianti dunque?
Cosa dire, ognuno ha i propri dolori… Comunque se fosse possibile tornare indietro cancellerei alcuni errori. Quelli causati dalla fragilità umana…