ECCO COME COMBATTERE LA POVERTÀ
Si può sconfiggere la povertà? In linea puramente teorica, sì; in pratica, no, perché sono tanti gli interessi affinché una parte della popolazione viva nell’indigenza. Sebbene alcuni politici ebbero la penosa idea di annunciare da un balcone l’avvenuta scomparsa della povertà, noi ci accontenteremmo di una sua notevole riduzione, in un mondo dove l’uno per cento possiede una ricchezza superiore a quella del restante 99 per cento. Per di più, i due terzi di quel malloppone non è frutto del lavoro di questi “Paperoni”, ma è stata da loro ereditata oppure è generata da rendite monopolistiche o da rapporti clientelari. Un dato ancora più inquietante se si considera che sono oltre 40 milioni le persone schiavizzate nel mercato del lavoro, e di queste, 4 milioni sono bambini. Quindi, per realizzare il sogno della scomparsa della povertà, occorrerebbe che tutti diventassimo più buoni e altruisti, l’auspicio che ci ripetiamo soprattutto quando viene Natale. Nell’attesa che accada questo “miracolo dei miracoli”, tre studiosi si sono dati da fare elaborando un approccio di natura sperimentale per combattere o quantomeno alleviare la povertà. E quest’anno ci hanno anche vinto quello che viene definito il premio Nobel per l’Economia, dato che è una creazione della Banca centrale svedese e viene assegnato dal 1968 dalla Fondazione Nobel, la stessa degli altri 5 premi indetti dall’inventore della dinamite. I tre professori sono: Abhijit Banerjee, la moglie, Esther Duflo e Michael Kremer. I primi due – un indiano e una francese – insegnano al Massachusetts Institute of Technology (il mitico Mit di Boston), il terzo è uno statunitense che ha la cattedra ad Harvard. Il premio (oltre al prestigio, anche un assegno da 950 mila dollari) è stato riconosciuto per il loro “approccio sperimentale” finalizzato a contrastare la povertà attraverso soluzioni che producano i loro effetti a livello globale. Le loro ricerche, durate una quindicina di anni, si sono basate sullo studio di iniziative sanitarie ed educative, che hanno prodotto risultati concreti “sul posto”.
Il comitato per i Nobel ha rilevato come i risultati delle ricerche condotte dai tre professori e dal gruppo di ricercatori da loro coordinati, hanno “migliorato enormemente la nostra capacità di lottare in concreto contro la povertà”. In particolare, uno dei loro studi ha consentito a oltre 5 milioni di ragazzi poveri indiani di beneficiare di programmi scolastici di tutoraggio collettivo. Altri interventi hanno migliorato i risultati scolastici nel Kenya occidentale e programmi di assistenza sanitaria preventiva in altri paesi dell’Africa e dell’Asia. La povertà è una delle questioni più urgenti del nostro tempo, dato che circa un decimo della popolazione mondiale vive in condizioni di indigenza. Si tratta di 700 milioni di persone che non hanno nulla. Dagli studi dei tre premiati, emerge che per le popolazioni povere non è efficace l’invio di donazioni a pioggia, ma per combattere la povertà occorre suddividere questo problema in questioni più piccole e più gestibili, come gli interventi più efficaci per migliorare la salute dei bambini. Ogni anno, circa 5 milioni i bambini sotto i cinque anni muoiono ancora per malattie che spesso sarebbero potute essere prevenute o curate con trattamenti che sono costosi. La metà dei bambini del mondo lascia la scuola senza un’alfabetizzazione di base.
Dai loro studi è emerso che non serve a nulla inviare “soldi a pioggia” verso i paesi poveri perché i “ricchi” agiscono in base a teorie e modelli economici avulsi dalla realtà. I tre Nobel spiegano che moltissimi di coloro i quali vivono con un dollaro o anche meno al giorno non patiscono la fame. Se così fosse, spenderebbero tutti i loro redditi in generi alimentari, mentre il cibo rappresenta tra il 36% e il 79% del consumo dei poveri che vivono in campagna, e tra il 53% e il 74% di quelli che vivono nelle città. Inoltre, per ogni 1 per cento di aumento dei redditi, solo lo 0,67 viene consumato per il cibo. Pertanto, ciò che veramente serve per finanziare i paesi poveri è individuare qual è il vero fabbisogno. Per esempio: perché un uomo che vive in condizioni di sottoalimentazione, si indebita per comprare un telefonino? Oppure, perché i bambini in molti paesi non vanno a scuola? Lavorando sul campo, i tre ricercatori hanno scoperto che in Kenya le assenze scolastiche non dipendono tanto dalla mancanza di scuole, o di maestri, o di libri, ma dal fatto che molti bambini hanno i vermi e che questo li fa ammalare e non andare a scuola. Per cui, sarebbe molto più utile investire gli aiuti in laboratori medici e in medicinali per prevenire e curare queste infestazioni prevalentemente di tipo gastro-intestinale, anziché spendere i soldi per matite o quaderni.
Un altro esempio è rappresentato dall’accesso al credito che rappresenta un problema concreto per i piccoli imprenditori dei paesi in via di sviluppo. I tre economisti hanno dimostrato che la microfinanza è uno strumento concreto che può aiutare a superare questo problema e ad allargare l’accesso al credito. Tutto questo, però, non è solo frutto di speculazioni mentali, idee e concetti sviluppati tra le mura di un’università. Loro queste teorie le hanno applicate andando sul posto: in Bangladesh hanno verificato come effettivamente funziona questo strumento della microfinanza e come lo si può applicare meglio per combattere la povertà e la disoccupazione e farne uno strumento per promuovere l’imprenditorialità. Questa è la differenza di approccio rispetto al passato: non più “aiutiamoli a casa loro”, mandando denaro o altro, ma aiutiamoli individuando problemi e priorità e poi attuando con loro le soluzioni.
Certò, è più semplice costruire un’autostrada nel deserto, dove passano più mazzette che automobili. Lo è meno costruire fabbriche, insegnare un lavoro, dare un’educazione affinché alzando il livello economico generale si riduca la povertà.