È L’ORA DEI LAICI

“CI FA BENE RICORDARE – AMMONISCE FRANCESCO – CHE LA CHIESA NON È UNA ÉLITE DEI SACERDOTI, DEI CONSACRATI, DEI VESCOVI, MA CHE TUTTI FORMANO IL SANTO POPOLO FEDELE DI DIO. DIMENTICARCI DI CIÒ COMPORTA VARI RISCHI E DEFORMAZIONI NELLA NOSTRA STESSA ESPERIENZA, SIA PERSONALE SIA COMUNITARIA, DEL MINISTERO CHE LA CHIESA CI HA AFFIDATO”.

Una lettera quasi dimenticata dai grandi giornali, come se il suo contenuto non fosse una grande notizia, anzi, una “buona notizia”. È quella che papa Francesco ha scritto lo scorso 19 marzo al cardinale Marc Ouellet, presidente della pontificia commissione per l’America Latina. Tema “caldo” dell’argomento i laici, il loro avvenire e il loro ruolo all’interno della chiesa universale, ma nella lettera molti sono i consigli ai pastori da evidenziare.

Bergoglio ha incontrato i membri della commissione e dall’assemblea e dai vari colloqui sono scaturite opinioni e impressioni che il papa ha voluto “non far cadere nel vuoto”. Da qui la lettera per approfondire una riflessione già avviata e proporre una visione alternativa nei rapporti fra chiesa e società rispetto a quella prevalente in questi anni. Una bella lettera al contrario di molti “slogan” così in uso nel lessico ecclesiale. È papa Francesco a dare il la: “È l’ora dei laici, ma sembra che l’orologio si sia fermato”. Ritorna, come un mantra, una delle prime preoccupazioni pastorali che udimmo già tre anni fa all’inizio del pontificato di Francesco.

La nostra prima e fondamentale consacrazione, riflette il papa, affonda le sue radici nel nostro battesimo. Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. “Ci fa bene ricordare – scrive Francesco – che la chiesa non è una élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il santo popolo fedele di Dio. Dimenticarci di ciò comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la chiesa ci ha affidato”.

Papa Francesco non va per il sottile. Con la scusa di parlare all’America Latina, in realtà sta parlando al mondo intero, e in particolare alla vecchia e stanca Europa, malata di secolarismo e, per paradosso, di clericalismo. “Questo atteggiamento non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. Il clericalismo porta a una omologazione del laicato; trattandolo come ’mandatario’ limita le diverse iniziative e sforzi e, oserei dire, le audacie necessarie per poter portare la buona novella del vangelo a tutti gli ambiti dell’attività sociale e soprattutto politica. Il clericalismo, lungi dal dare impulso ai diversi contributi e proposte, va spegnendo poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli”.

In quest’ottica pienamente conciliare, papa Francesco non dimentica l’impegno nella vita pubblica. E soprattutto quello che lui denuncia da molto tempo: la cultura dello scarto che lascia poco spazio alla speranza. “Lì troviamo – continua il papa – i nostri fratelli, immersi in queste lotte, con le loro famiglie, che cercano non solo di sopravvivere, ma che, tra contraddizioni e ingiustizie, cercano il Signore e desiderano rendergli testimonianza. Che cosa significa per noi pastori il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica? Significa cercare il modo per poter incoraggiare, accompagnare e stimolare tutti i tentativi e gli sforzi che oggi già si fanno per mantenere viva la speranza e la fede in un mondo pieno di contraddizioni, specialmente per i più poveri, specialmente con i più poveri. Significa, come pastori, impegnarci in mezzo al nostro popolo e, con il nostro popolo, sostenere la fede e la sua speranza. Aprendo porte, lavorando con lui, sognando con lui, riflettendo e soprattutto pregando con lui”.

Aprire uno sguardo contemplativo sulle città, per Francesco, è fondamentale, significa essere cristiani nel nostro tempo con coraggio e fedeltà al vangelo. Il cristiano vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. “Non è il pastore a dover dire al laico quello che deve fare e dire, lui lo sa tanto e meglio di noi. Non è il pastore a dover stabilire quello che i fedeli devono dire nei diversi ambiti. Come pastori, uniti al nostro popolo, ci fa bene domandarci come stiamo stimolando e promuovendo la carità e la fraternità, il desiderio del bene, della verità e della giustizia. Come facciamo a far sì che la corruzione non si annidi nei nostri cuori?”.

La lettera diventa dunque un manifesto chiarissimo ed esaustivo su ciò che significhi clericalismo: “Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose dei preti, e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi”.

In questo senso la parola profetica di Francesco va oltre le mediazioni curiali e i tatticismi pastorali, per ergersi a consiglio di “buona notizia”. Ma, nonostante tutto, c’è ancora chi pare non dargli credito.