È il tempo del realismo

Un mese fa, 6 aprile, era il lunedì santo ed eravamo all’apice della tragedia. Quanto succedeva, però, a ripensarci, aveva un sapore eroico. Le città rigorosamente desolate, le bare caricate sui camion, la sospensione momentanea delle diatribe politiche, l’impegno estenuante di tutti gli operatori civili e sanitari. Persino, l’anziano pontefice, che si muoveva solo ed incespicante nell’immensa piazza deserta… Era un popolo che recuperava in pieno la coscienza di sé. Che si stringeva attorno alla speranza. Che, anche nel momento più drammatico, riteneva opportuno cantare e salutarsi dai balconi, come per dire: Mettiamocela tutta, ce la faremo, vogliamo vivere, e vogliamo vivere come Italiani, con tutto quello che questo significa …

Sì, abbiamo scritto una pagina che ci fa onore. E, sono certo che ce ne ricorderemo per molto tempo. Sembra incredibile. Per quasi due mesi, sessanta milioni di italiani sono rimasti a casa e hanno rispettato le regole. Questo è sorprendente, considerata la nostra reputazione di popolo indisciplinato. No, sono convinto che non è stata solo la paura, o soltanto l’istinto più basilare che esista, quello di conservazione.

Sono, invece, pienamente d’accordo con quanto scrive Beppe Severgnini, nello splendido articolo, pubblicato in questi giorni dal “The New York Times”: “In Italia, egli sostiene, prima vogliamo decidere se una regola ci sembra sensata. Una volta deciso che lo è, la rispettiamo. Con il Covid, abbiamo deciso che il lockdown avesse un senso, quindi non c’era motivo di ostacolarlo. Ce l’abbiamo fatta perché abbiamo attinto alle risorse che abbiamo sempre avuto: realismo, inventiva, solidarietà, famiglia, memorie. Per secoli, gli invasori – spagnoli, francesi, austriaci, tedeschi – hanno dominato il territorio italiano. L’invasore, in questo caso, è un virus. Blindarci era l’unica cosa sensata da fare. E l’abbiamo fatta. La famiglia e le relazioni, la cui importanza nella cultura italiana non può essere sottovalutata, ci hanno sicuramente aiutato in questa crisi. Ecco perché l’Italia ce l’ha fatta meglio della cultura americana, in cui prevale il concetto di libertà personale, di quella francese, portata alla protesta, della Svezia che crede in una società aperta e poco legata”.

È proprio così. In questi mesi, ci ha aiutato, non un concetto astratto di nazione, ma la coscienza di appartenere ad un’unica realtà sociale e culturale. Qualcosa di concreto, come la condivisione di particolari stili di vita. E, nel profondo, se vogliamo, anche l’idea dinamica di una memoria storica.

Adesso, però, siamo giunti, al momento prosaico. L’incertezza del futuro ed il rischio, altrettanto drammatico, di un naufragio economico, sono tornati a dividerci. Ricominciano le diatribe di parte politica. Esplodono le indagini e i sospetti. La moria nei centri per anziani. La sconcertante scarcerazione di trecento mafiosi. L’opportunità o meno di regolarizzare seicentomila immigrati irregolari. Ma, soprattutto, lo spettacolo increscioso delle nazioni europee che si chiudono a riccio. E la cronaca quotidiana che ci presenta il ceto di imprenditori e commercianti sull’orlo del fallimento e della disperazione.

Ora, in modo particolare, abbiamo bisogno di lasciar perdere gli appetiti di potere, i risentimenti, gli schemi di pensiero, per compiere, in modo solidale e cooperativo, scelte possibili e realistiche. La posta in gioco, anche in questo caso, è di suprema importanza. Conservare la civiltà e gli stili di vita, oppure assistere al dissolvimento dello scenario sociale, nazionale ed internazionale.