DUE VISIONI DEL MONDO PER L’EUROPA DI DOMANI
Tutto fa credere che la campagna elettorale per il rinnovo nel maggio 2019 del Parlamento europeo sia cominciata già da tempo – come notano i più autorevoli esperti del ramo – all’insegna di una strisciante guerra civile. A differenza dalle otto precedenti consultazioni (dal 1979 ogni cinque anni sino al 2014), si contrappongono due visioni dell’Unione, una di natura democratico-liberale in cui prevale l’integrazione fra gli stati a vari livelli (economico, diplomatico, solidaristico) che sviluppi le fasi di un comune progresso, l’altra retrocessa a schemi di stampo nazionalistico. L’offensiva dei populismi si è fatta più intensa negli ultimi anni, come dimostrano i risultati elettorali in Germania, con il successo alle politiche del partito di estrema destra AfD (“Alternativa per la Germania”, cresciuto anche nelle più recenti consultazioni regionali in Baviera e in Assia), e analoghe avanzate delle destre in Olanda e in Svezia, e naturalmente in Italia con la coalizione gialloverde. Lo schieramento sovranista non è, per la verità, del tutto omogeneo in quanto i populisti di ogni paese tendono a proteggere i propri interessi nazionali; gli eurofobi vogliono però “fare massa” e ottenere risultati che permettano loro di imporre strategie diverse e ricondurre l’Europa a un insieme di stati-nazione piuttosto che a una Unione in fase di faticosa costruzione. Già gridano vittoria e promettono mutamenti apocalittici per i quali fra sei mesi l’Europa è finita.
Ma insieme a questi proclami esiste un rischio forse maggiore, come quello della recente iniziativa austriaca di concedere il doppio passaporto ai cittadini italiani della minoranza germanofona dell’Alto Adige (con una blanda reazione del nostro governo che non si è rivolto con la dovuta energia, come avrebbe potuto fare, alle strutture europee). Esistono, in Europa, situazioni che possono esplodere in conflitti veri e propri: se per esempio Budapest decidesse di attribuire la cittadinanza al 20 per cento di nativi ungheresi (oltre un milione e mezzo) che popolano la Transilvania, una regione ceduta alla Romania dopo la prima guerra mondiale, cosa alla quale l’Ungheria non si è mai rassegnata.
Il blocco populista potrebbe trovare, dopo le elezioni di maggio, una maggioranza nel Parlamento europeo che rovesci gli attuali rapporti di forza, anche perché lo schieramento democratico-liberale denuncia incertezze e debolezze. Va certamente registrato il più recente successo del voto a maggioranza con cui l’Assemblea di Strasburgo ha condannato l’Ungheria per violazione di diritti costituzionali, fra i quali la libertà di espressione e di stampa; ma potrebbe essere l’ultimo se i partiti pro-europei non riusciranno a concepire una adeguata strategia anti sovranista È anche vero che, a parte l’eccezione italiana, i sondaggi sono stati per le destre sempre più generosi dei risultati perché (come nei casi olandese e svedese) i cittadini alle urne hanno espresso un voto inferiore alle attese dei populisti. Si può citare il caso recente della Lettonia, dove veniva dato per vincente lo schieramento filorusso, restato al palo, mentre a sorpresa gli “europeisti” (tre formazioni minori) tutti assieme superano un terzo dell’elettorato, con l’alleanza di governo filoeuropea e filo Nato al 30 percento mentre ai nazionalisti (dei quali ci si attendeva un successo) è andato meno del 12 per cento.
Sta di fatto che fra i ventisette elettorati (dopo l’eliminazione di quello inglese con la Brexit) sono decisamente a destra il polacco e l’ungherese, mentre quelli della Repubblica ceka e della Slovacchia, moderatamente conservatori, condividono con Varsavia, Budapest e Vienna una posizione anti-immigranti che è ufficialmente anche quella del governo italiano (e, secondo i sondaggi, della maggioranza dei votanti). In effetti il problema dei profughi è stato enfatizzato sino agli estremi limiti della paura e continua a essere strumentalizzato come propaganda politica, con le ripetute condanne di papa Francesco nei confronti del populismo e la reazione delle chiese cristiane che, in un recente convegno, hanno affermato che il rifiuto di offrire un rifugio è “contrario all’esempio e alla chiamata di Gesù Cristo”.
In Europa sembra attualmente mancare, ripetiamo, una energica reazione democratica e moderata, a parte l’offensiva antipopulista del presidente francese Emmanuel Macron che chiama a raccolta le forze filoeuropee. Le iniziative per il momento non raggiungono con efficacia l’opinione pubblica. Saranno quindi elettoralmente molto lunghi gli otto mesi che mancano al voto popolare, il più importante per l’Europa da quello iniziale del 1979.