DOPO L’ELEZIONE di MATTARELLA

By Nicola Guiso
Pubblicato il 28 Febbraio 2015

L’elezione a capo dello stato di Sergio Mattarella (ex dirigente, parlamentare e ministro della Democrazia cristiana, figlio di Bernardo, che nel 1945 era vice segretario del partito, con De Gasperi segretario) ha prodotto effetti che meritano attenzione.

Il primo è la “sorpresa” di molti commentatori e di molti politici “scoprendo” che nella società e nelle istituzioni vi siano ancora  democristiani meritevoli di far parte ad alti livelli della classe dirigente politica del paese. Una scoperta che non avrebbe avuto ragione d’essere solo a considerare che dal dicembre 1947 al giugno del 1981 (l’arco di tempo in cui l’Italia ha rapidamente sanato le immense rovine morali e materiali  della guerra; e che da paese che con circa metà della popolazione attiva impiegata in agricoltura è diventato la quinta potenza economica del mondo) tutti i presidenti del Consiglio sono stati dirigenti Dc, il partito che in otto elezioni politiche aveva ottenuto una percentuale di voti sempre superiore al 38 per cento, con una percentuale di votanti mai inferiore al 90 per cento. Cifre e dati, evidentemente, incompatibili in democrazia per un partito che non avesse avuto una classe dirigente di valore al centro e alla periferia.

Il secondo fatto è che l’elezione di Mattarella ha portato ulteriore sconquasso nel già disastrato mondo del centro-destra. È difficile comprendere infatti quali siano state le vere ragioni che hanno spinto Berlusconi a non votarlo (dopo averne apprezzato l’idoneità alla carica di presidente della Repubblica) solo perché il suo nome gli sarebbe stato proposto da Renzi senza averne prima discusso con lui; e, successivamente, a rompere il “patto del Nazareno” col presidente del Consiglio sulle riforme. Per ora, credo che abbia ragione Giuliano Ferrara (vero amico di Berlusconi, perché gli ha sempre manifestato apertamente le sue opinioni senza calcoli) quando ha scritto in proposito: “Che s’è fumato Berlusconi? Si può passare in un amen dalla pratica e difesa di un patto per le riforme come il Nazareno alla opposizione senza se e senza ma, a 360 gradi addirittura (…) più denuncia di una deriva autoritaria (di Renzi) e abbraccio corsaro (suo, di Berlusconi) con il Matteo (Salvini, segretario leghista) della felpa e del no all’euro?”. Il risultato delle due scelte è stato infatti di aumentare il caos in Fi tra i berlusconiani di ferro, i seguaci di Verdini che vogliono confermare il patto con Renzi, quelli di Fitto (sull’orlo della scissione) che  sempre contrari al patto del Nazareno ora chiedono l’immediato superamento del “partito padronale” e metodi democratici per la formazione della classe dirigente di Fi.

Il terzo fatto infine è che l’elezione di Mattarella stia creando più guai che vantaggi a Renzi. Se infatti l’elezione ha compattato le correnti del Pd, ha riavvicinato Vendola e creato aperture in settori dei 5 Stelle, questi evidenti aumenti di peso dei gruppi (interni ed esterni al Pd) alla sua sinistra e la fine del patto con Berlusconi gli stanno ponendo grossi problemi in parlamento, per corrispondere alle molte promesse e ai tanti proclami sui quali, sino ad ora, ha fondato i propri successi politici ed elettorali. Di qui l’operazione avviata dal segretario del Pd e presidente del Consiglio per conquistare alla sua causa parlamentari transfughi (già tali o potenziali) dai 5 Stelle, dai vendoliani, dagli alfaniani, dai centristi di varie sigle e da Fi. Operazione definita da Renzi “mercato delle vacche” quando l’aveva fatta Berlusconi. E che ora invece, fatta da lui, definisce operazione “di stabilizzazione” della situazione politico-parlamentare, tentando di nobilitare calcoli, spesso di bassissimo conio, di parlamentari che, con il loro comportamento “mobile”, contribuiscono a ridurre ulteriormente l’apprezzamento dei cittadini per i politici, che in tutte le inchieste è fisso al 3 per cento.

È una situazione che fa riflettere, con inquietudine, su questa affermazione di Lenin (uno che di politica se ne intendeva) fatta durante un congresso di partito: “Non è serio, in politica, contare sulle convinzioni, la devozione e le belle qualità dell’anima”. Infatti Lenin non aveva niente a che fare con la democrazia.

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