COSA VOGLIAMO FARE DA GRANDI?
“Vogliamo essere il paese delle piccole imprese? Vogliamo continuare a essere il paese che fabbrica automobili? Vogliamo continuare a essere il paese che consuma suolo più di chiunque altra nazione europea pur avendo la crescita demografica più bassa? La nostra classe imprenditoriale – afferma il noto giornalista del Corriere della Sera autore del libro-inchiesta Razza Stracciona – è bravissima a portare le valigette in Svizzera ma meno brava a creare occasioni di sviluppo e di crescita…”
Dopo aver dato un bel calcio nel posto giusto… al calendario Maya e soprattutto ai tanti apprendisti stregoni della sperduta galassia della comunicazione che, sfruttando meschinamente la debolezza dell’essere umano, hanno per mesi gettato nel terrore milioni di persone propinando trasmissioni e scritti “appro-fonditi” circa la fine del mondo fissata allo scadere del 21 dicembre scorso, in cambio di qualche punto in più di share o della vendita di qualche copia in più di libri, periodici o quotidiani, siamo ora a interrogarci sul nostro futuro e soprattutto su quello dei nostri figli.
Senza consultare le “carte” o scomodare gli astri possiamo senza dubbio affermare che il nuovo anno non si annuncia ricco di segnali incoraggianti. Il lavoro scarseggia, la disoccupazione aumenta, i salari sono sempre più oppressi dalle tasse, la sanità boccheggia, la scuola respira a fatica, le infrastrutture rantolano. E alle porte ci sono le nuove elezioni… Insomma, il quadro non è dei migliori anche perché nel nostro paese delle meraviglie continuano a brulicare manager, politici, piazzisti, intermediari, faccendieri, che occupano molti luoghi di potere e soprattutto succhiano denaro pubblico. Senza voler emettere giudizi sommari o iscriversi al club della demagogia spicciola, lo sfascio culturale, morale, etico è sotto gli occhi di tutti. Tanto per fare un esempio, il recente rapporto di Trans-parency International, un’organizzazione mondiale che si occupa della corruzione, colloca anche quest’anno l’Italia in fondo alla classifica europea della trasparenza, accompagnata da Bulgaria e Grecia, con un voto ben lontano dalla sufficienza e soprattutto dai paesi ritenuti più etici come Danimarca, Finlandia e Nuova Zelanda. E i recenti arresti di funzionari pubblici e dirigenti del ministero delle Politiche Agricole per reati contro la pubblica amministrazione non possono che confermare, purtroppo, la veridicità di quella classifica… Nonostante, dunque, un cielo così affollato di nubi minacciose e tanta incertezza, dalla nostra classe politica non si registra però alcuna presa di coscienza. Neanche un piccolo segnale, quale ad esempio la riduzione del numero dei parlamentari. Non sarebbe stato sicuramente determinante nella lotta al lungo e pesante periodo di recessione che stiamo vivendo, ma quanto meno avrebbe mostrato una certa sensibilità nei confronti dei difficili eventi. Ed ecco, allora, che tra primarie e sonore sconfitte, rottamatori poco credibili e teleguidati, annunci, marce indietro e penosi déjà vu, intrecci pericolosi tra banche, fondazioni, assicurazioni e poteri pubblici locali e nazionali, connivenze tra controllori e controllati e tant’altra paccottiglia, un osservatore attento e rigoroso come Sergio Rizzo non poteva non tirar fuori dal suo cassetto l’evidenziatore di colore giallo e sottolineare alcune delle tante storture di questo nostro meraviglioso ma bistrattato paese. E lo ha fatto come sempre, alla grande, mandando in libreria Razza Stracciona (Rizzoli, pp.254, euro 17,00), un libro-inchiesta la cui lettura suscita sì grande sdegno per le tante malefatte di cui gli italiani onesti sono vittime, ma nello stesso tempo infonde anche una certa fiducia. Fiducia in quel giornalismo d’inchiesta che, nonostante resti una nicchia nel panorama della nostra informazione, rappresenta un elemento insostituibile per la qualità della vita democratica di un paese.
Coautore insieme all’amico e collega Gian Antonio Stella del bestseller La Casta, oltre un milione e duecentomila copie vendute e ventidue edizioni, Sergio Rizzo è responsabile della redazione economica romana del Corriere della Sera e in passato ha lavorato per Milano Finanza, Il Mondo e Il Giornale. Giornalista di grande spessore, vera e propria miniera di informazioni, grazie alla sua penna intelligente e tagliente come un bisturi racconta come la razza padrona degli anni settanta si sia trasformata nella razza stracciona di oggi. Un’Italia dove ciascuno si rifugia in piccoli egoismi, compresi quelli che dovrebbero avere delle responsabilità importanti, perdendo così di vista il disegno complessivo. Un’Italia dove la burocrazia e la corruzione fanno sì che la funzione di un’opera pubblica finisca nel retrobottega a vantaggio di ciò che l’opera pubblica produce in termini di consenso e di denaro, ovviamente solo per pochi intimi… Un’Italia dove, ad esempio, diventa maledettamente complicato anche realizzare una semplice strada visto che potrebbe capitare che il Comune dove passi ti chieda di fargli il campo di bocce altrimenti non rilascerà l’autorizzazione, la Provincia a sua volta vuole che tu faccia passare il tracciato in un certo modo piuttosto che un altro e, dulcis in fundo, la Regione dice di non gradire perché i suoi politici hanno idee ancora diverse…
Nel volume di Sergio Rizzo, che come tanti altri suoi libri fortunati sta incontrando ampio apprezzamento tra i lettori, c’è spazio però anche per una flebile ma speranzosa fiammella. Una fiammella da rinvigorire sempre più, prima che il buio ammanti definitivamente il nostro paese… Su questo e altro l’ho “interrogato” facendogli visita nello studio della sede romana del Corriere della Sera. Ecco cosa ci siamo detti.
Senta Rizzo, a quali straccioni fa riferimento il suo libro…?
In questi anni ci siamo molto concentrati sui problemi della politica. Sul fatto che abbiamo una classe dirigente mediocre che non è in grado di dare delle risposte concrete ai problemi del paese. Questa, ovviamente, è una visione parziale: se il paese, infatti, è ridotto così non è colpa solo della politica, ma anche di una classe dirigente complessiva di spessore limitato, di scarse visioni, di piccolo cabotaggio. Con questo libro, allora, voglio mettere in evidenza anche questo aspetto. La nostra grande classe imprenditoriale ha perso la voglia di sognare e tutto sommato l’ha fatta perdere un po’ anche al paese.
Il motivo?
È molta attenta ai soldi… Piuttosto che puntare ad esempio sull’innovazione rincorre la speculazione edilizia e quella finanziaria. È bravissima a portare le valigette in Svizzera ma meno brava a creare occasioni di sviluppo e di crescita. Se abbiamo una crescita della produttività inesistente, una disoccupazione che aumenta e tutta una serie di problemi economici, pur essendo un paese formidabile e pieno di risorse, credo che non tutte le colpe possano essere attribuite alla politica.
Ma un paese che tassa le rendite speculative al 12,5 per cento e l’economia reale al 48 per cento, che idea di sviluppo ha in mente?
Manca proprio l’idea di che paese vogliamo essere. Vogliamo essere il paese delle piccole imprese? Vogliamo continuare a essere il paese che fabbrica automobili? Vogliamo continuare a essere il paese che consuma suolo più di chiunque altra nazione europea pur avendo la crescita demografica più bassa? Che paese vogliamo essere? È qui che si vede la nostra grande carenza.
In pratica si naviga a vista…
Esattamente, d’altra parte lo vediamo nella politica e non è un caso che la politica e una certa finanza vadano spesso a braccetto… Non è un caso che una certa industria viva con i contributi statali al di là di quello che produce. L’Italia è un paese dove ogni tanto qualcuno spegne la luce e improvvisamente piombiamo nel buio cominciando ad annaspare. Vediamo le ombre e cominciamo a vagare come dei sonnambuli nel buio in attesa che qualcuno la riaccenda. È successo nel dopoguerra quando siamo usciti dal fascismo e improvvisamente abbiamo capito che potevamo diventare un paese moderno.
Cosa c’è dietro la corsa degli imprenditori a buttarsi in politica?
Credo lo facciano per motivazioni diverse. Non dimentichiamoci, comunque, che con la sua discesa in campo Silvio Berlusconi ha inviato un messaggio più che chiaro.
Del tipo?
Siccome l’imprenditore ha saputo realizzare delle cose, automaticamente anche in politica può funzionare. Quindi alla base, in generale, c’è la supposizione di chi ha avuto successo nel lavoro e crede di poter replicare in politica. E poi c’è stato anche un effetto di scimmiottamento… Abbiamo assistito, infatti, a una quantità impressionante di personaggi che qualificandosi come imprenditori sono scesi in politica. Ma spesso si sono rivelati dei millantatori, talvolta anche dei cialtroni. Pensano magari che la politica possa fornire loro un piccolo scudo. D’altra parte in un paese privo di una legge seria sul conflitto d’interessi e che non ha mai pensato di farla, c’è da aspettarselo…
Però è una colpa o una volontà bipartisan visto che anche i governi di centro-sinistra si sono ben guardati dal realizzarla…
L’Italia non è un paese con questo tipo di cultura che invece appartiene al mondo anglosassone. Noi siamo un popolo un po’ particolare sotto questo punto di vista. Basta ricordare quello che è accaduto nella nostra storia. Nel 1862, ad esempio, la concessione delle ferrovie meridionali fu affidata dal governo a un ex ministro. Un signore, Pietro Bastogi, che era stato ministro fino a qualche mese prima… Ci sono stati innumerevoli casi del genere, ma nessuno ha mai sollevato il problema risolvendolo.
Compreso il centro- sinistra… Scusi se insisto, ma in questo paese scaricare la colpa sugli altri è diventato uno sport assai praticato e soprattutto par-ticolarmente comodo…
Giusto. Già nel 1993/94, quando l’imprenditore Silvio Berlusconi scese in campo, la sinistra aveva fatto fuoco e fiamme salvo poi, però, non avere il coraggio di dire che non era candidabile una persona che aveva le concessioni pubbliche. Da quel momento la sinistra non solo non ha fatto niente ma addirittura nel 1996 candidò un signore che aveva appena comperato due reti televisive, Vittorio Cec-chi Gori, e che si trovava in condizioni analoghe a quelle di Berlusconi. Questa cosa la dice lunga anche sull’ipocrisia di certe affermazioni. In cinque anni non fecero la legge e neanche successivamente quando, nel 2006, tornarono al governo. Eviden-temente non avevano voglia e interesse a farla.
A proposito di imprenditori, che ne pensa di Sergio Marchionne? È vero che ha tirato fuori dai guai la Fiat “senza aiuti”?
C’è un libro di Marco Cobianchi, Mani bucate che, dati alla mano, sostiene il contrario.
Cioè?
In realtà la Fiat avrebbe continuato a prendere contribuiti anche dopo la nomina di Marchionne. Ma dando per vero quello che rivendica Marchionne, e cioè di aver tirato fuori dai guai la Fiat senza “aiuti”, resta però sospesa un’altra domanda…
Quale?
La Fiat si è risollevata veramente?
La sua risposta qual è?
Marchionne sostiene, ma lo si capisce anche da certi atti – vedi gli stabilimenti all’estero – che l’Italia è un paese nel quale sostanzialmente non si possono fare automobili. Forse ha ragione, ma dipende dal tipo di automobili… La Lamborghini, ad esempio, l’hanno comperata i tedeschi ma continuano a farla a Sant’Agata Bolognese, non hanno portato via gli stabilimenti. Quando l’hanno comperata la Lamborghini vendeva 70 auto all’anno, oggi ne vende 700. E 700 Lamborghini equivalgono a 7 mila Fiat, tanto per capirci… È chiaro, allora, che la Lamborghini si può fare solo a Sant’Agata Bolognese. Nessuno comprerà mai una Lamborghini costruita in Cina, nessuno acquisterà mai una Ferrari che non sia stata fatta a Maranello così come un’Alfa Romeo o una Lancia costruite fuori dall’Italia. Se noi pensiamo alle utilitarie che si possono fare indifferentemente in Serbia, in Polonia o in Algeria, forse ha ragione anche Marchionne, ma se ci riferiamo pensiamo ad altri tipi di auto allora non ha più ragione. Adesso ho letto che Marchionne vorrebbe puntare sull’Alfa Romeo e sulla Maserati. Forse qualcuno gli ha messo la pulce nell’orecchio facendogli capire che stava sbagliando.
La crisi dell’auto, comunque, è un po’ generale…
Sicuramente. Come mai, però, Bmw, Mercedes e Audi non vivono la stessa crisi della Fiat? In questo caso, dunque, si nota chiaramente la differenza a cui prima facevo riferimento. Quella cioè tra un paese, la Germania, che ha ben chiaro cosa significhi un mondo globalizzato e un paese, il nostro, che invece non ha la più pallida idea… Eppure noi ce l’avremmo la chiave per avere una presenza seria nel mondo globalizzato…
Quale sarebbe?
La bellezza. Noi siamo il paese della bellezza.
Ma paradossalmente, come lei sottolinea nel libro, l’Italia è l’unico paese dove il turismo fa perdere soldi…
Proprio così. Ed è un’ulteriore dimostrazione di quanto siamo straccioni… è possibile che un paese come il nostro non abbia una grande impresa turistica di livello mondiale? Noi nel 1970 eravamo la prima destinazione turistica; siamo un paese che custodisce, come ha detto qualcuno sicuramente esagerando, il 70% del patrimonio artistico-culturale del mondo. Ma anche avessimo solo il 7 per cento sarebbe comunque tantissimo, più di tutti quanti gli altri e con un territorio ricco di bellezze paesaggistiche, un clima meraviglioso e con delle città stupende. Nonostante tutto, però, riusciamo a perdere soldi. La bellezza tiene insieme ogni cosa: il turismo, la cultura, l’automobile e anche le altissime tecnologie.
A suo avviso, quindi, in concreto cosa andrebbe fatto?
Innanzitutto ci vorrebbe un grande piano nazionale di recupero del paesaggio. Quindi un intervento poderoso sull’istruzione cominciando a insegnare la bellezza e quindi la storia dell’arte sin alle scuole elementari. Sicuramente è una cosa di grande respiro, ma se mai s’inizia mai si finisce. Noi siamo il paese che ha il più alto consumo del suolo perché riempiamo il territorio di edilizia inutile, di palazzine bruttissime; abbiamo devastato la pianura padana allagandola di capannoni industriali però poi non facciamo le infrastrutture che servono. Non facciamo le ferrovie. Il nostro è un paese che deve ricominciare a sognare, ma non si sogna sull’Ilva… O meglio, si sogna anche sull’Ilva, si può continuare anche a fare la siderurgia, però bisogna avere chiaro che il cuore di questo paese, per come è fatto e per quello che produce, è rappresentato dalla bellezza che tiene insieme tutto il resto: agricoltura, cibo, territorio, paesaggio, turismo, eccetera, eccetera.
Confindustria e le 267 organizzazioni che la compongono quali considerazioni le suggeriscono?
Confindustria subisce un po’ gli stessi vizi che hanno gli apparati pubblici. E come se il mondo privato si fosse specchiato nella pubblica amministrazione e in qualche modo avesse fatto le stesse operazioni. Mi pare abbia 37 organizzazioni consorelle, c’è una galassia tale che ogni volta che fanno una trattativa con il governo si creano file di persone. E gli ultimi neanche sentono perché sono troppo distanti dal tavolo… Confin-dustria è la massima espressione di questo mondo, ha circa cinquemila dipendenti, un’articolazione territoriale micidiale. Adesso, per fortuna, ci si sta interrogando sul fatto se abbia senso mantenere questa struttura articolata e costosa. La verità è che anche Confindustria ha creato un funzionariato sociale parapubblico che, pur essendo privato, si percepisce come pubblico. È chiaro, allora, che questi personaggi oppongono resistenza nel doversi unificare o perdere potere. Hanno gli stessi difetti che hanno i ministeri.
Delle banche, invece, cosa c’è da dire…?
La ragione perché l’Italia sta diventando una schifezza, così piena di edilizia inutile, è anche perché le banche danno i soldi soltanto sulla base di garanzie reali. Non importa cosa costruisci, l’importante è costruire. Se costruisci la banca si tacita la coscienza perché ha l’immobile su cui rivalersi, per cui ti presta a cuor leggero i soldi. Anche se poi, come hanno dimostrato tutti i crack bancari più grandi, proprio l’edilizia diventa un elemento che rischia di farti saltare in aria… È vero, infatti, che hai l’immobile ma poi devivenderlo senza rimetterci… Le banche italiane soffrono di questa grave lacuna progettuale. Non è vero che devono limitarsi al prestito di denaro e a far rendere in qualche modo il capitale. Le banche, mi si passi il termine, hanno anche una funzione sociale. Se tu ad esempio decidi di non dare il finanziamento a tre ragazzi italiani che sono dovuti emigrare in California per sviluppare un progetto simile a quello di Google, e quindi fai scappare tre “cervelli”, in quel caso hai delle responsabilità.
Evidentemente hanno altri interessi più remunerativi…
Diciamo che sono molto concentrate sui loro rapporti di potere e non sono invece attente a quello che accade intorno. Loro hanno una funzione importantissima, sono il cuore dell’economia e se ci troviamo in questa situazione è anche perché loro stesse hanno una classe dirigente che guadagna troppo, che guarda prevalentemente agli aspetti della speculazione e che non sa fare il proprio lavoro. E poi…
Cosa?
Certamente a livello legislativo sono stati fatti dei passi avanti, come ad esempio nel campo delle concentrazioni, però non è stato risolto un tema enorme che è quello del conflitto d’interessi.
Ancora un conflitto…
Ma si può consentire che gli azionisti o gli amministratori delle banche siano gli stessi personaggi che poi vengono finanziati dalle banche? Credo sia una cosa un po’ curiosa. Una banca che elargisce soldi al proprio azionista, al proprio presidente o al proprio consiglio d’amministrazione, in caso di mancata restituzione farà forse causa a se stessa…?
Nella sua lente d’ingrandimento sono finiti anche i sindacati. Cosa c’è che non va?
La verità è che il sindacato è sempre più un apparato autoreferenziale che non riesce a vedere la realtà. Faccio un esempio. Quando, come è successo qualche tempo fa con la Regione Lazio, firmi un accordo sulla produttività che non prevede una valutazione di insufficienza…, a quel punto tu stesso metti un tappo a tutto quello che vai dicendo. Il merito dove finisce se non è possibile dare un’omologazione negativa a un lavoratore per la parte variabile della retribuzione? Purtroppo è tutto così, assistiamo a tante bellissime dichiarazioni e manifestazioni d’intenti, poi, però, la difesa dello status quo è sempre quella. Ovviamente riconosco al sindacato una funzione storica importantissima, l’Italia sarebbe certamente un paese più complicato se non ci fossero state le grandi lotte sindacali negli anni sessanta. I diritti dei lavoratori sono fondamentali, però oggi bisogna iniziare a guardare il mondo reale con un occhio differente.
Cioè?
La funzione del sindacato credo che non possa essere quella di dire sempre e soltanto di no, oppure difendere sempre e soltanto le prerogative di quelli che sono già garantiti o dei pensionati. Se c’è bisogno di fare un passo avanti occorre che lo facciano tutti, nessuno escluso. La sensazione, invece, è che il sindacato si sia arroccato su una trincea. E mi riferisco a tutti i sindacati.
Scuola e università dovrebbero rappresentare le fondamenta su cui costruire le nuove generazioni. Invece…?
A mio avviso sono state fatte delle riforme demenziali perché hanno distrutto anche la capacità di costruire la memoria di questo paese. Penso a come hanno modificato i cicli della storia nelle scuole medie, per cui si arriva al liceo e non si sa assolutamente niente di quello che è successo in questo paese e anche nel mondo. Per quanto concerne l’università è la stessa cosa. Ci sono 180 mila insegnamenti su un milione e mezzo di studenti, credo ci sia un rapporto di uno studente ogni 8 insegnamenti…
Cosa svelano queste cifre?
Che il nostro sistema universitario serve soprattutto ai professori e non agli studenti. Come anche la moltiplicazione dei corsi di laurea, lo spacchettamento di questi insegnamenti. Alla fine, infatti, scopri che quando t’iscrivi alla laurea triennale e dovresti fare 9 esami l’anno, in realtà ne fai 25 perché ti hanno spacchettato gli insegnamenti. Tu compri i libri, segui i corsi, si moltiplicano gli insegnanti, le sedi… Pur avendo questa diffusione così capillare di sedi universitarie, di insegnamenti e di corsi, guarda caso, però, siamo il paese che ha un numero di laureati pari alla metà della media europea…. Siamo al 12% contro il 23%. E abbiamo dei tassi di abbandono mostruosi.
Tra i tanti carrozzoni di questo paese purtroppo c’è anche quello della sanità, un pianeta sempre fertile per affari e affaristi insaziabili…
L’unica strada è riportare tutto al centro…
A cosa si riferisce?
Bisogna togliere la sanità alle regioni. Noi non possiamo avere venti sistemi sanitari diversi, non possiamo avere un posto come il Trentino dove pagano anche le cure odontoiatriche ai figli purché non si abbia un reddito familiare superiore a 80 mila euro… e una regione come la Calabria, ad esempio, dove invece chiudono il pronto soccorso perché non ci sono i livelli minimi di igiene. Questo non è più tollerabile.
Si dovrebbe quindi sconfessare la riforma del 1978. Ma lei crede che sia veramente possibile una cosa del genere in un paese come il nostro dove, ormai, non cambiano più neanche le stagioni…
Bisogna farlo. Dobbiamo ammettere che la riforma è fallita, che abbiamo prodotto venti mostri pur avendo una sanità che è considerata tra le migliori d’Europa e che come costi è nella media europea. Però è una sanità piena di sprechi e di inefficienze, quindi dovremmo avere il coraggio di riconoscere che all’epoca fu fatto un errore. Le regioni erano nate come uno strumento di programmazione, oggi invece sono diventate micidiali macchine di spesa e la sanità è il fattore che sicuramente ha determinato questo cambiamento. Noi potremmo spendere molto meno e avere una qualità molto più elevata. Trovo incomprensibile che in un paese civile la sanità pubblica debba sottoporre i cittadini a delle vessazioni assurde, come ad esempio delle liste d’attesa indecenti. Inoltre abbiamo un sistema sanitario pubblico che si basa però sulle convenzioni con i privati. Questo ha fatto sì che si creassero degli arricchimenti veramente mostruosi e una corruzione micidiale. Il caso della Lombardia credo sia eclatante.
Anche la nostra categoria, quella dei giornalisti, purtroppo, non è immune da colpe in questo disorientamento del paese. Ad esempio il giornalismo d’inchiesta e di denuncia è merce sempre più rara per non dire introvabile… A suo avviso cos’è che condiziona maggiormente i media?
I giornalisti italiani sono una categoria tradizionalmente sempre molto vicina al potere. Basta vedere quanti giornalisti sono diventati politici, ancora adesso. Non c’è mai stato un concetto di indipendenza della stampa come quello, ad esempio, che c’è negli Stati Uniti o in Gran Bretagna. Lì la stampa è assolutamente sacra, non c’è la possibilità di querelare un giornalista. Da noi, invece, piovono come la pioggia d’autunno… In quei paesi c’è un rapporto con il potere che è completamente diverso ed è a quel modello che dobbiamo ispirarci, anche grazie al fatto che oggi abbiamo tantissimi canali in più d’informazione rispetto al passato e di conseguenza possiamo sviluppare anche delle forme di informazione molto più indipendenti. Inoltre abbiamo una struttura proprietaria delle aziende editoriali che è molto curiosa… Quando hai delle grandi imprese, delle grandi istituzioni finanziarie che sono proprietarie di giornali il rapporto è un po’ complesso. Detto questo, però, c’è sempre poi il libero arbitrio. Tra un direttore e l’altro, infatti, spesso cambia tantissimo…
A suo avviso quanto durerà la crisi economica che stringe il nostro paese?
Più che della crisi sono preoccupato del dopo. Anche uscendo dalla crisi, infatti, credo continueremmo ad avere delle difficoltà dovute alla strutturazione del nostro paese. Noi per dieci anni non siamo praticamente cresciuti, mentre l’Europa, anche se di poco, è avanzata. Questo vuol dire che abbiamo dei problemi strutturali e se non li rimuoviamo potremmo anche uscire dalla crisi ma cresceremmo lo 0,0 per cento…
Dove mettere mano allora?
Bisognerebbe tornare a pensare in grande. Dobbiamo avere un’idea di cosa vogliamo essere, questo è il punto vero. E poi lavorare in quella direzione.
Ma in concreto quale rotta dovremmo seguire per tornare a sognare?
Intanto la bellezza di cui parlavo prima potrebbe essere una delle chiavi importanti che poi farebbe da traino al resto. Questa, ovviamente, è una visione che poi deve confrontarsi con la politica, con l’industria, eccetera. Parallelamente, però, c’è da fare un grosso lavoro di smantellamento delle tante aderenze esistenti. Bisogna togliere molta sabbia dagli ingranaggi, bisogna cominciare a semplificare i livelli decisionali. Non è più possibile, ad esempio, che per fare una strada devi parlare con 38 soggetti diversi…
Smantellare, cioè, quella che nel libro lei chiama burocrazia parassitaria …
Esattamente. Mi domando, ad esempio, se è ancora possibile avere una magistratura amministrativa che da una parte è consigliere del governo e dall’altra giudica sugli atti del stesso governo… Bisogna iniziare a smantellare simili stratificazioni che si sono sommate nel corso degli anni. L’abolizione delle province, ad esempio, sarebbe molto importante, come anche l’accorpamento dei comuni e l’abolizione delle numerosissime società locali controllate dalla politica sarebbe una cosa fondamentale. I pubblici dipendenti che non funzionano e che sono lì soltanto a scaldare la sedia, mi dispiace dirlo, ma vanno mandati via. Oggi è indispensabile che la classe politica faccia uno sforzo reale di cambiamento.
A proposito di politici, che ne pensa dell’esperienza Monti prematuramente terminata?
È un po’ curioso che un paese democratico debba rivolgersi a un “tecnico”… Lui ha avuto il grandissimo merito di restituire una faccia a questo paese che l’aveva completamente persa. Non è una cosa da niente in quanto ci ha dato la possibilità di tornare ad essere un po’ centrali nel dibattito europeo. Come anche è stata importantissima la nomina di Mario Draghi alla guida della banca centrale europea. Monti è un bravissimo tecnico con un’esperienza molto importante alle spalle, credo solo che in questo governo non abbia scelto tutte le persone adatte.
Tipo?
Il ministro dei Beni culturali, ad esempio, non credo abbia prodotto molti risultati. Il ministro dell’Istruzione mi ha lasciato un po’ perplesso come anche altre figure di questo governo. Anche per la presidenza del Consiglio certi sottosegretari, così invischiati nelle pastoie dell’alta burocrazia, non so quanto possano poi aver contribuito a quella politica di semplificazione di cui parlavamo prima. Inoltre credo ci sia stato un grande equivoco con il ministro dello Sviluppo economico. La figura di Corrado Passera non l’ho capita bene. Ha avuto cinque vecchi ministeri – l’industria, la comunicazione, il commercio con l’estero, le infrastrutture e i trasporti – però non si sono visti grandi risultati.
E poi nei confronti della cosiddetta casta il governo Monti si è mostrato troppo tenero…
Questo è vero, potevano fare tante cose in più. Però sono arrivati in una situazione molto complicata e hanno dovuto agire in fretta. Se posso essere sincero, comunque, e lo dice uno che non è mai stato tenero nei confronti della politica, sono state prese delle misure mai prima adottate.