CONFLITTO REGIONALE O GUERRA MEDITERRANEA?

By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 2 Luglio 2013

L’elemento più grave riguarda l’intrusione di altre, e ben altrimenti importanti, potenze mondiali. A favore di Assad la Cina e la Russia, per i ribelli gli Stati Uniti e l’Europa Si dice “regionalizzazione” del conflitto siriano ma si teme che esso significhi qualcosa di più, una sorta di “guerra mediterranea” che concerne direttamente o indirettamente sette od otto stati. In corso da più di ottocento giorni la “primavera di Damasco” si sta trasformando nel peggiore carnaio fra tutte le rivolte che hanno scosso il Mediterraneo meridionale e orientale: con i morti di cui ormai si è perso il conto – attorno ai centomila – con la diaspora dei rifugiati, calcolati in un milione e mezzo, con l’intensificata persecuzione dei cristiani, con i vicini (Libano, Israele, Turchia, Iraq, Giordania) coinvolti negli avvenimenti bellici, e con i lontani (Iran, Arabia Sau-dita, Qatar) che dalle opposte parti soffiano sul fuoco. Perché a una ribellione più o meno libertaria contro il presidente-dittatore Bashar al-Assad si aggiunge uno scontro interreligioso fra islamici, sunniti da una parte e sciiti dall’altra, senza esclusione di colpi, in nome di Allah e di Maometto.

L’elemento più grave, però, riguarda l’intrusione di altre, e ben altrimenti importanti, potenze mondiali. A favore di Assad la Cina e la Russia, per i ribelli gli Stati Uniti e l’Europa. Alle Nazioni Unite il rappresentante russo, insieme con quello cinese, mette il veto a mozioni di condanna del governo siriano, e nello stesso tempo Mosca fornisce a Damasco sofisticati strumenti bellici, insieme con una partita di modernissimi missili-antimissili Yakhout. A loro volta il Qatar e l’Arabia Saudita finanziano gli oppositori di Assad (peraltro in lite perenne fra loro) con alcuni miliardi di dollari, mentre Washington leva l’embargo alle armi destinate ai rivoltosi e l’Europa – dietro pressione di Londra e Parigi – si allinea, sia pure con qualche reticenza.

La Russia non vuole rinunciare all’unico punto di appoggio della sua flotta nel Mediterraneo, la base siriana di Tartus, e ai proventi delle forniture militari. La Cina tenta in tutti i modi di far sentire la sua voce nel  Mediter-raneo. Dall’altra parte gli Stati Uniti – gravemente debilitati dal punto di vista politico dalle “primavere arabe” – tentano di arginare le interferenze cino-russe e vogliono proteggere l’alleato di sempre, Israele. Che, paradossalmente, si trova a essere aiutato da una istituzione, la Lega Araba, tendenzialmente fautrice della distruzione dello stato ebraico ma che nelle presenti circostanze ha condannato il comportamento del potere siriano.

La “guerra mediterranea” è complicata da una sottoguerra religiosa fra le due maggiori componenti confessionali dell’islam, i sunniti che ne sono la maggioranza (la punta di lancia è l’Arabia Saudita), e gli sciiti, che fanno capo all’Iran, potendo contare, nel mondo musulmano, su corpose minoranze, in questa occasione favorevoli alla Siria. Dove, peraltro, i sunniti sono più numerosi degli sciiti, che però – con la sottospecie della setta alauita cui appartiene il presidente Assad – controllano fermamente tutti i gangli dello stato. Altro paradosso in Iraq, dove la prevalenza demografica sciita è da sempre politicamente sterilizzata a favore dei sunniti.

Da una tale situazione non si vede come uscire: essa, giorno dopo giorno, si fa sempre più rischiosa per la pace in Medioriente e in Mediterraneo, e forse nel mondo. Il conflitto, in effetti, è già debordato oltre i confini del paese. Scambio di cannonate, e relative vittime civili, con la Turchia. Commandos siriani invadono, in Libano, la storica valle della Bekaa. Gli Hezbollah (il “partito di Dio”) palestinesi, finanziati dall’Iran, combattono a fianco delle truppe regolari di Assad e minacciano i moderati di Hamas, tendenzialmente favorevoli ai ribelli. Israele bombarda accantonamenti e depositi di armi destinate a Damasco e ai suoi alleati. I governativi siriani si sono spinti a usare armi chimiche. Senza contare episodi di indescrivibile ferocia, come il metodico mitragliamento dei funerali delle vittime da parte dei soldati lealisti, lo sterminio di civili incolpevoli – donne, vecchi, tanti bambini – le torture sui prigionieri. Una pratica che non viene risparmiata dai ribelli (all’interno dei quali non mancano infiltrazioni fondamentaliste e vicine ad al-Qaeda) con l’immagine, che fa inorridire, di un guerrigliero mentre mangia il cuore di un militare nemico abbattuto.

La diplomazia, specialmente a livello dell’Onu, le sta tentando tutte: proposte di moratoria nei combattimenti (ma si cacciano addirittura i rappresentanti della Croce Rossa e delle organizzazioni umanitarie, si impediscono le cure ai feriti); ipotesi di una conferenza internazionale, le cui condizioni non vengono però accettate dagli uni e dagli altri; iniziative di mediazione (Na-zioni Unite, Lega Araba, Unione Africana, grandi potenze) che non trovano comunque ascolto.

Chi soffre è la gente, stritolata dalla violenza del confronto, impotente contro la mancanza di pietà delle armi, costretta ad abbandonare le proprie case (o ciò che ne resta dopo scontri e bombardamenti), senza futuro, senza prospettive, in un conflitto civile e interreligioso che si avvita su se stessa, apparentemente senza speranza. La violenza si abbatte sui cristiani, contro i quali si accaniscono gli estremismi: due dei loro vescovi – uno siro-ortodosso e l’altro greco ortodosso – sono stati rapiti da mesi e non se ne sa più niente. Dei due milioni di fedeli la maggioranza vive nel timore, moltissimi sono stati cacciati dalle loro case (nella città martire di Homs erano novantamila, ne sono rimaste poche centinaia), mentre numerosi sono quelli rifugiatisi oltre confine. La “guerra mediterranea” non sembra avere fine.

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