Condannare o capire?

Il gesto di Sanremo è questione di valori
By Luciano Verdone
Pubblicato il 8 Febbraio 2022

Aveva ragione Madre Teresa quando affermava:
“Nel terzo mondo, talvolta, i giovani muoiono per mancanza di pane,
nell’Occidente ricco, i giovani spesso muoiono per mancanza di valori che diano senso alla vita”.

In questi giorni, un giovane cantante, durante la prima serata del Festival di Sanremo, si è auto battezzato, forse alludendo ad un nuovo, liberatorio, inizio epocale. Quello della sessualità autodeterminata. Questo gesto ha scatenato una reazione bipolare, in particolare dentro la Chiesa. C’è chi ha gridato alla parodia del sacramento e chi invece vi ha visto una manifestazione artistica, priva di malizia, da ricondurre nei confini della libertà di espressione.

Come sempre, queste esplosioni dell’umore pubblico possono condurre alla riflessione. C’è un episodio evangelico in cui Gesù si commuove alla vista della folla che lo segue da giorni, stremata ed affamata, pur di ascoltarlo e ricevere miracoli. Oppure, semplicemente, per godere della sua umanità perfetta, irradiante bontà e comprensione verso tutti: “Egli vide molta folla – scrive Marco – e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore”.

Perché quella gente fa tanta pena a Gesù? Eppure, essa appartiene al popolo di Dio, cioè all’unica religione ritenuta rivelata. Anche se, al tempo di Gesù, l’ebraismo era ridotto a cumuli di precetti esteriori (non fare, non toccare, non mangiare …) e ad una serie di riti senz’anima.

La gente di oggi, probabilmente, farebbe ancora più pena al Signore. Anche se cristiana. In quanto, oggi, chi non è apertamente ‘fuori’ della Chiesa, ormai conserva della fede solo un vago umanitarismo, stimolato di continuo dai pressanti inviti televisivi a versare somme per i poveri. E se le persone mature, già da alcuni decenni, sono approdate ad una miscela sincretistica di cristianesimo e spiritualità orientale, masse di giovani, invece, vivono tranquillamente nel vuoto religioso. Essi sembrano le ‘pecore senza pastore’ di cui sopra o, come diceva san Paolo dei pagani, gente “senza Dio e senza speranza”, priva di ancoramenti all’assoluto e di prospettive eterne. Ammettiamolo. Molti cristiani di oggi evocano la figura del sagrestano del celebre romanzo di Georges Bernanos (Diario di un curato di campagna). Al parroco che gli domandava se credesse nella vita eterna, questi rispose: “Dopo la morte, tutto finisce. Non siamo che materia”.

Aveva ragione Madre Teresa quando affermava: “Nel terzo mondo, talvolta, i giovani muoiono per mancanza di pane, nell’Occidente ricco, i giovani spesso muoiono per mancanza di valori che diano senso alla vita”. Alcuni anni fa, una ragazza suicida in un bagno della Stazione Ostiense, a Roma, lasciò scritto questo drammatico messaggio per i genitori: “Riconosco che mi avete voluto bene; mi avete dato tutto, anche il superfluo, ma non mi avete dato l’indispensabile: non mi avete aiutato a trovare una ragione valida per dare un senso alla mia vita. Per questo me la tolgo”.

Fa male leggere queste cose. La vita, infatti, è bella per se stessa e ciascuno dovrebbe, da solo, essere in grado di trovarvi il sapore che la rende apprezzabile. Devo ammettere, però, che una spiritualità solo umanitaria non regge all’urto delle situazioni estreme. Di fronte alla morte, nostra e di chi amiamo, diventiamo simili al viandante che avanza, di notte, in una foresta sconosciuta, portando in mano un lume fioco, incapace di prevalere sulle tenebre circostanti. Tanti, oggi, desiderano dare un senso eterno alla vita, senza riuscire, però, a credere seriamente nell’eternità.

Lo confesso. Questi giovani li comprendo. Essi non sono stati socializzati nella cultura cristiana. E spesso, neanche semplicemente nella cultura. Di chi la colpa? Un po’ della generazione che non ha trasmesso la fiaccola. Ma, ancora di più, del clima culturale senza radici, basato sull’onnipotenza scientifica e tecnologica. Lo vediamo ogni volta nelle trasmissioni di prima serata. Quando si tratta di quiz riguardanti la religione, cala la saracinesca mentale. Nessuno, o quasi nessuno, risponde. E si vede. I concorrenti appaiono meravigliati della domanda, umiliati ed un po’ contrariati.

A questo punto, però, gli atteggiamenti sono tre, e solo il terzo mi sembra equilibrato. C’è chi si straccia le vesti recriminando e rifiutando di leggere in profondità l’accaduto. E c’è chi assolve tutto in nome dell’amore cristiano. Ma c’è, anche, chi cerca di tenere uniti i due poli del binomio: verità e amore. Consapevole che nessuna verità è tale se imposta con accigliata arroganza. E nessuna forma di carità è autentica se non fa riferimento a principi ineludibili. In questo caso, è chiaro: è fondamentale il rispetto della sensibilità religiosa di una parte considerevole del nostro popolo.

“Veritatem facentes in charitate”, direbbe san Paolo. E lui, in quanto fondatore di comunità ecclesiali, era convinto che l’amore cristiano non è un organismo senza scheletro, ma fa sempre riferimento a dei fondamenti normativi. Questa è pedagogia. Un genitore permissivo o indifferente, fa danni equivalenti a quelli prodotti dal genitore autoritario. Occorre lo sguardo valorizzante. Quello del genitore che si appella alla coscienza e pone limiti alla trasgressione ma che, anche nel richiamo più severo, fa intravedere, sotto traccia, la finalità benefica del suo intervento.

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