COLORIAMO IL LORO FUTURO
Docenti che si inventano un nuovo metodo per insegnare la scrittura, la lettura oppure la matematica, dirigenti che lottano contro la mafia, ma anche edifici scolastici fuori legge, tempo pieno solo “sconosciuto” al Sud e la lettura considerata un hobby per perditempo Ne parliamo con Sabrina Carreras, autrice del volume Ora o mai più
Settembre, oltre a essere il mese che saluta l’estate dando il benvenuto all’autunno, è anche quello, probabilmente, meno amato dagli studenti di ogni ordine e grado. Il suono della campanella delle scuole o l’ingresso nelle aule universitarie, infatti, segna, di fatto, un cambio di rotta nella quotidianità dei nostri giovani. Si ricomincia. Certamente ci saranno delle eccezioni – buon per loro – ma tanti vivono il momento con qualche batticuore in più. Naturalmente il tutto dura poco, giusto il tempo di resettare le vecchie abitudini estive e quindi riabbracciare i compagni o farsene dei nuovi. Anche perche della scuola non se ne può fare veramente a meno, nonostante l’avvento di internet… Anzi, direi che proprio dopo la comparsa di questa immensa biblioteca ci sia ancora più di bisogno di una mente capace di riordinare, selezionare, valutare, confrontare, scegliere. E chi, allora, più dell’istituzione scuola e quindi dei vari docenti possono aiutarci e guidarci all’analisi critica? A discernere i vari apporti culturali? A fare da filtro? Non un ammasso di nozioni bensì una cultura aperta a tutte le affermazioni e posizioni, dalle più illuminanti a quelle più comuni e banali. Ovviamente, però, per raggiungere un simile risultato occorrono due “attori” imprescindibili: da una lato insegnanti capaci di comunicare contenuti ricchi di significato, dall’altro allievi ricettivi e soprattutto disposti ad accettare, ognuno con il proprio limite, l’impegno e la fatica che, appunto, l’apprendimento richiede.
Sabrina Carreras, giornalista professionista e scrittrice, dal 2009 lavora come autrice di reportage e inviata del programma di inchieste di Rai3 PresaDiretta. In precedenza ha lavorato a La7 come inviata nei programmi di approfondimento giornalistico. Tra le sue pubblicazioni c’è Ora o mai più (Chiarelettere, pp.256, euro 16.90), un interessante volume sul pianeta scuola dove non mancano le storie di chi ha il coraggio di costruire il futuro. Docenti che si inventano un nuovo metodo per insegnare la scrittura e la lettura, oppure la matematica, dirigenti che lottano contro la mafia intraprendendo percorsi pieni di insidie, quasi impossibili da percorrere, ma che mettono al centro lo studente facendolo sentire protagonista. Il messaggio è questo: riprendiamoci la scuola. Quella che ci rende cittadini del mondo, quella fatta di bravi insegnanti e dirigenti, nella gran parte, che lavorano ogni giorno per costruire il futuro. Naturalmente, quando parliamo di scuola a tutto tondo, non ci sono solo luci e zucchero filato. Le storture non mancano, l’importante però è rendersene conto e ragionarci sopra per trovare soluzioni concrete e possibilmente in tempi brevi.
Iniziamo, allora, la nostra chiacchierata con Sabrina Correras partendo dalle cose che non funzionano…
Come giornalista d’inchiesta ha iniziato a occuparsi di scuola nel 2009, l’anno del crollo della casa dello studente a L’Aquila… Al di la della forza distruttrice dei terremoti, qual è lo stato attuale di sicurezza dei nostri edifici scolastici?
Siamo messi molto male. Basta leggere il rapporto Imparare sicuri stilato dall’associazione CittadinanzAttiva: nell’anno scolastico precedente la pandemia, quando gli istituti erano frequentati ogni giorno da alunni e insegnanti, ci sono stati settanta episodi di crollo. Praticamente uno ogni tre giorni. È venuto giù di tutto: solai, intonaci, finestre, pensiline, muri di recinzione, persino alberi. E anche con la pandemia, con la frequenza ridotta a singhiozzo, i crolli non si sono fermati.
È assurdo che si debba andare a scuola con la speranza non di prendere un bel voto ma di uscirne sani e salvi…
Purtroppo è così. Basta guardare i dati sull’edilizia scolastica pubblicati sul sito del ministero dell’Istruzione per farsi subito un’idea. Si scopre che il nostro patrimonio scolastico è vecchio, in alcuni casi addirittura vetusto. Ci sono scuole ospitate in edifici dell’ottocento costruiti per essere ospedali, conventi, caserme. Circa il 16 per cento dei 40.160 edifici scolastici oggi attivi è stato realizzato prima della Seconda guerra mondiale e più del 60 per cento risale agli anni sessanta e ottanta, quando sull’onda del baby boom si arrivò a erigere anche ottocento edifici all’anno. Nel XXI secolo, esauritasi la spinta demografica, di nuove scuole se ne sono costruite relativamente poche. Tanto che oggi l’età degli edifici scolastici italiani è davvero elevata: la media è di cinquantatré anni, con punte di settantacinque in Liguria e sessantaquattro in Piemonte. Ma c’è un altro aspetto cosa che fa ancora più rabbia…
Quale?
La maggior parte degli edifici scolastici italiani è addirittura fuori legge: la metà delle nostre scuole non ha il certificato di agibilità (54 per cento), di collaudo statico (39 per cento) e di prevenzione incendi (59 per cento), certificazione che secondo il Decreto 26 agosto 1992 doveva diventare appannaggio di tutte le scuole entro cinque anni dall’entrata in vigore, ma il cui termine è stato più volte prorogato, l’ultima con il decreto Milleproroghe che ha fatto slittare il termine dal 31 dicembre 2021 al 31 dicembre 2022. Per non parlare della normativa antisismica: solo il 12,7 per cento delle scuole è stato progettato o adeguato con i criteri richiesti dalla legge. E questo in un Paese dove tutte le regioni, a eccezione della Sardegna, sono in zona 2, quella a rischio sismico medio-alto, mentre undici regioni sono in zona 1, quella con il livello di rischio più alto.
Noi abruzzesi ne sappiamo qualcosa…
Infatti, anche la morte degli otto ragazzi sepolti a L’Aquila sotto le macerie della casa dello studente durante il terremoto del 2009 si sarebbe potuta evitare se i lavori di ristrutturazione dell’edificio, effettuati tra la fine degli anni novanta e il 2002, fossero stati eseguiti conformemente a diligenza, prudenza e perizia, e nel rispetto della normativa
prevenzionistica. Così come quella dei ventisette alunni e della maestra di prima elementare della scuola Francesco Jovine di San Giuliano di Puglia, crollata durante il terremoto in Molise perché priva di qualsiasi collaudo e adeguamento alle norme antisismiche: “Se è vero – disse il procuratore Nicola Magrone nella sua requisitoria durante il processo – che il sisma del 31 ottobre 2002 fu l’evento scatenante della tragedia, è anche vero che, se le norme fossero state rispettate quando si decise di sopraelevare l’istituto scolastico, quella scossa da sola non sarebbe bastata a far crollare l’edificio, e prova ne sia che nel resto del paese ci furono crolli e danni anche gravi a case e palazzine, ma nessun edificio implose come la scuola, fino a polverizzarsi”.
Restando al 2009, quell’anno fu contrassegnato anche dalle numerose proteste contro la tanto discussa riforma Tremonti-Gelmini…
Di riforma in realtà aveva ben poco se non l’obiettivo, nemmeno tanto celato, di fare cassa a spese della scuola con 8 miliardi di euro di tagli in tre anni. Da allora ho visitato molte scuole, da quelle dei piccoli comuni a quelle delle isole minori, dalle scuole cosiddette di frontiera sguarnite di tutto, persino degli studenti, agli istituti più tecnologici e all’avanguardia in Italia e in Europa. E di innovatori lungo il cammino ne ho incontrati davvero tanti.
A proposito, il termine innovazione può essere il sinonimo di tecnologia?
No. L’Italia è piena di storie di innovatori che parlano d’altro. Ad esempio chi combatte contro la mafia e l’indifferenza delle istituzioni per costruire un asilo in un quartiere alla periferia di Palermo deprivato di tutto; di chi immagina e progetta scuole più sicure, più verdi, più sostenibili e inclusive escogitando modi nuovi per far parlare tra loro architettura, pedagogia e rispetto dell’ambiente; di chi sfida regole e convenzioni per togliere i bambini dalla strada e dalla criminalità; di chi dentro e fuori le aule smonta pezzo a pezzo tutti quegli stereotipi che ancora oggi fanno credere che la matematica non sia cosa da femmine e la scuola materna non sia per insegnanti maschi; di chi non teme il dubbio e si chiede i perché senza stancarsi e a costo di correre rischi; di chi si è messo in discussione cercando nuove metodologie per rendere l’apprendimento più efficace, non seguendo le mode del momento ma andando a studiare le più recenti scoperte delle neuroscienze. È il racconto di quanti hanno sfidato le tradizioni per realizzare una scuola diversa negli spazi, nei tempi, nei modi e nei contenuti.
Al di là comunque del lodevole coraggio di tanti nel tentativo di cambiare le cose, l’innovazione nella scuola resta un tema centrale e non più rinviabile…
Assolutamente d’accordo. Rimane la sfida di mettere a sistema l’innovazione. Ed è una sfida che va raccolta ora. Anzi, ora o mai più. Ora che sono in arrivo i miliardi di euro del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ora che il dibattito pubblico è tornato a occuparsi finalmente di scuola. Con la pandemia di Covid-19, infatti, per la prima volta nella storia le famiglie italiane si sono trovate la scuola dentro casa, nei salotti, nelle cucine, in camera da letto. Durante il lockdown genitori e figli hanno dovuto condividere gli stessi spazi e gli stessi strumenti di lavoro, e le lezioni degli insegnanti sono diventate pubbliche. L’istruzione è diventata il centro dell’organizzazione e dell’economia famigliari. Mai come in questa fase storica gli italiani hanno sentito il bisogno di scuola. L’hanno desiderata e invocata. Hanno
capito che si fa e si costruisce insieme.
Nel libro, oltre a sottolineare alcune storture, lei dà principalmente voce a chi ogni giorno, dentro e fuori le aule, sperimenta delle soluzioni. Storie di coraggio che servono a far capire come sia possibile mettere a sistema la buona scuola che, soprattutto, non è fatta di eccezioni. Tra le varie storie raccontate, ce n’è una in particolare che potrebbe fungere da manifesto della scuola che funziona?
Una che mi ha emozionato molto è quella di Antonella Di Bartolo, una preside dell’Istituto comprensivo statale di Palermo Sperone-Pertini che si trova nei pressi di una delle piazze di spaccio di droga più grandi dell’intera Sicilia. Quella sede, situata in quartieri a dir poco difficili come Brancaccio e Sperone, l’aveva scelta volutamente perché lì aveva svolto la sua missione don Giuseppe Puglisi, il primo prete ucciso dalla mafia. In qualche modo, dunque, voleva restituire qualcosa alla straordinaria esperienza del religioso. Prima di assumere l’incarico aveva visitato l’istituto. Le prime impressioni erano state quelle di una pellicola degli anni 80 girata nel Bronx… Tutte le finestre erano rotte, non c’erano banchi e porte e davanti l’ingresso dei bagni erano state appoggiate le lavagne… Ma soprattutto non c’erano gli studenti. La dispersione scolastica, infatti, superava addirittura il 27%, un dato pazzesco. Come prima cosa, quindi, Antonella aveva mostrato tutta la sua indignazione alle istituzioni ritenendole complici del disastro, visto che era da tempo sotto gli occhi di tutti. Poi, nonostante un quadro così scoraggiante, aveva deciso di perseguire un’idea folle: rifondare l’istituto partendo dalla scuola dell’infanzia. Siamo al sud, qui le donne non lavorano, come pensi di riempire di bambini la scuola? Dove le trovi le iscrizioni? A queste e altre obiezioni Antonella aveva fatto spallucce. Credeva fortemente in quell’impresa, era convinta che laddove lo Stato dà delle opportunità le persone riconoscono il loro diritto e lo esercitano. Quindi, insieme al collaboratore scolastico Gullotta, e ad alcuni insegnanti inizia a visitare ogni casa del quartiere, le fermate degli autobus. Addirittura va dal panettiere chiedendo di fare passaparola con gli altri commercianti della zona. Se la scuola fosse ripartita tutto il quartiere ne avrebbe beneficiato. Insomma, una sorta di porta a porta chiedendo di iscrivere figli o nipoti. E alla fine Antonella vince la sua incredibile battaglia. Riesce a organizzare questa scuola dell’infanzia creando addirittura un laboratorio per le mamme. Da solo difficilmente denunci chi spaccia la droga a tuo figlio, ma se fai parte di un gruppo di persone e fai rete diventa possibile. Il “miracolo”, allora, si è compiuto. Oggi quel 27% di dispersione scolastica è diventato poco più dell’1%. Ecco perché nel libro parlo di coraggio. Storie come questa dimostrano che la determinazione di una persona può cambiare un’aula, una scuola, un intero quartiere.
Tra le cose da cambiare, o meglio da omologare, c’è sicuramente anche il tempo pieno che rappresenta un altro solco profondo tra Nord e Sud…
Le famiglie italiane hanno fame di tempo pieno a scuola e lo chiedono ogni anno di più per i loro figli, soprattutto alle elementari. Se vent’anni fa le classi che lo praticavano erano il 21 per cento del totale, oggi questa percentuale è raddoppiata. Sì, perché avere la possibilità di restare a scuola anche nel pomeriggio è preziosa, permette alle famiglie, e in particolare alle donne, di conciliare la vita personale con il lavoro e soprattutto, nelle zone più difficili del nostro paese, di tenere i ragazzi lontani dalla strada e dalla criminalità. Oggi la diseguaglianza tra gli studenti italiani si misura anche in termini di tempo: c’è un confine fatto di minuti, ore, giorni passati a scuola che divide chi ha avuto la fortuna di nascere e crescere nelle regioni del Centronord, dove è possibile chiedere e ottenere classi a tempo pieno, e chi invece frequenta la scuola al Sud, dove questa scelta è un vero lusso. La regione con il maggior numero di richieste di tempo pieno è il Lazio, che svetta ben oltre la media nazionale con il 64,1 per cento. Poi la linea di demarcazione è netta: seguono infatti Piemonte (62,5 per cento), Emilia-Romagna (60,7 per cento), Toscana (60,1 per cento) e Lombardia
(59,1), mentre agli ultimi posti della classifica si posizionano Calabria (28,5 per cento), Campania (26,7 per cento), Puglia (21,4 per cento), Molise (15,3 per cento) e Sicilia (14,8 per cento).
Un’altra diversità si nota tra le città e i piccoli centri…
Certamente. Chi nasce in un piccolo comune della provincia avrà ancora meno possibilità di accedere a classi a tempo pieno rispetto a chi vive in città. Anche in questo caso il divario tra Nord e Sud resta enorme: se a Milano il 90 per cento dei bambini ha accesso al tempo pieno, a Palermo solo il 4,5 per cento ha questa possibilità.
Dove sono finiti i maestri? Questa interessante domanda che lei pone nel libro accende i riflettori sulla parità di genere nella scuola. Un fenomeno su cui tanti, a mio avviso sbagliando, sorvolano…
Secondo gli ultimi dati ufficiali del ministero dell’Istruzione, facilmente consultabili sul Portale unico dei dati della scuola, nell’anno scolastico 2022 i maestri in cattedra, di ruolo o supplenti, nelle scuole pubbliche sono pochissimi: appena il 4 per cento su 289.542 docenti di ruolo della primaria. Nella scuola dell’infanzia addirittura sono delle mosche bianche: in tutta Italia se ne contano appena 832, un misero 0,4 per cento. Va un po’ meglio nelle scuole secondarie, dove la percentuale sale al 28 per cento nelle medie e al 34,4 per cento nelle superiori. Certo è che si tratta sempre di una minoranza. La scuola è donna, soprattutto alle elementari, e lo è in modo talmente massiccio che ormai è un dato che diamo per scontato, senza pensare alle conseguenze che questo fenomeno produce sull’insegnamento. Non è sempre stato così: quando in Italia il ruolo di insegnante contava quanto quello di prete e più di quello di sindaco, il rapporto di genere nell’insegnamento era quasi in pareggio. Nell’anno scolastico 1875-1876, ad esempio, a fronte di 23.267 maestri in cattedra c’erano 23.818 donne. Uno scarto minimo. La scuola pubblica del resto è stata una chiave di volta fondamentale per l’emancipazione femminile. Tutto ha avuto inizio con la legge Casati del 1861, che istituì per la prima volta l’obbligo di istruzione elementare gratuito per tutti i bambini e le bambine, compresi quelli delle classi sociali più povere e quelli che abitavano nei posti più periferici.
La causa principale sul perche in Italia sempre meno uomini decidano di dedicarsi all’insegnamento nella scuola pubblica, sarebbe legata agli gli stipendi bassi e ai meccanismi di carriera praticamente inesistenti. Condivide?
Ribalto la questione. Se gli uomini disdegnano l’insegnamento scolastico perché si guadagna poco, c’è da chiedersi allora quale sia il motivo per cui le donne invece scelgano in massa di fare le maestre. Sono meno ambiziose? Possono permettersi di guadagnare meno? Si devono accontentare di quello che gli uomini snobbano?
Però non mi ha risposto…
Lo faccio subito… A mio avviso c’è’un malinteso che si è annidato dal punto di vista culturale nel mondo della scuola..:
Cioè?
Che il lavoro delle maestre sia di scarso impegno. Perché le ferie durano sei settimane all’anno e i pomeriggi sono liberi. Senza contare che una volta uscito dall’aula chi insegna si deve occupare della correzione dei compiti, di rielaborare con attenzione quanto avvenuto in classe e progettare l’intervento successivo. Ma soprattutto è un malinteso che ne sottintende un altro…
Ossia?
Che l’insegnamento sia un lavoro che le donne possono fare a mezzo servizio per poi tornare a occuparsi dei figli, della famiglia e della casa. Un lavoro cioè che per ritmi e orari si concilia con le aspettative di genere dettate dalla società: essere madri e mogli. È questa rappresentazione stereotipata di ruoli e attitudini che pesa tanto da essere decisiva nella scelta delle professioni. Le statistiche ci dicono che le donne non si distribuiscono in modo uniforme nel mercato del lavoro, ma si concentrano prevalentemente nelle occupazioni di assistenza e cura della persone: infermiere, badanti, assistenti sociali, segretarie, estetiste, commesse. E appunto maestre. La cura infatti richiede relazione, attenzione ai bisogni dell’altro, accudimento, empatia, affettività. Tutte doti considerate come materne.
Tocchiamo un altro punto dolente: nel nostro Paese si legge poco. Secondo l’Istat, più della metà degli italiani, ovvero il 60 per cento, non ha letto nemmeno un libro l’anno. Una percentuale che sale al 72 per cento nelle regioni del Sud. Che dire?
La lettura non viene percepita come un bisogno per comprendere fenomeni complessi nemmeno dagli imprenditori e dai dirigenti d’azienda: ben il 40 per cento di chi occupa ruoli apicali nella grande, media e piccola industria italiana rientra tra le persone che non hanno aperto nemmeno un libro in un anno. Nessun romanzo, ma nemmeno libri di saggistica, di marketing, di trasformazioni
sociali, di effetti della globalizzazione sui mercati… Niente di niente. Eppure basta scorrere le classifiche europee sulle abitudini di lettura per rendersi conto del rapporto che c’è tra i libri e la ricchezza: le nazioni europee più evolute e civilizzate, quelle con una migliore qualità della vita e un’efficienza diffusa nei diversi settori, sono proprio quelle in cui la percentuale di lettori è alta. In Svezia il 90 per cento della popolazione ha letto almeno un libro nell’ultimo anno, in Danimarca l’82 per cento, nel Regno Unito l’80 per cento, in Germania il 79 per cento, in Finlandia il 75 per cento. Noi siamo sestultimi in compagnia di Romania, Grecia e Portogallo. Fa impressione anche osservare le motivazioni per cui
gli italiani non leggono: il 41 per cento non legge per mancanza di tempo e il 31 per cento per mancanza di interesse. Come se la lettura fosse un hobby per perditempo che non devono dedicarsi a occupazioni più urgenti e necessarie…
E dire che la storia nel corso dei secoli ha più volte dimostrato che arma potente siano i libri…
Basti pensare ai Bücherverbrennungen durante il nazismo (i roghi dei libri considerati distanti dall’ideologia totalitaria), ai libri bruciati in Cile sotto il regime di Pinochet o a quelli più recenti dati alle fiamme dall’Isis. Da noi invece non c’è nessun pericolo: i libri non si bruciano più, perché tanto nessuno li compra…