Lavorare in proprio offre alcuni innegabili vantaggi, come la flessibilità degli orari, la possibilità di operare da casa o in un coworking, senza spese folli per l’ufficio e CON UNa convenienza fiscale. Vediamo come compiere i primi passi per mettersi in gioco…
Si dice che spesso la finzione anticipa la realtà. Ed è vero. Chi ha visto il film Quo vado? Ricorda l’attaccamento morboso del protagonista al posto fisso: pur di non abbandonarlo, Checco Zalone rifiutava le più appetitose offerte in denaro ed era disposto a qualsiasi trasferimento, anche al Polo Nord. Finì con il cedere alle proposte dei suoi superiori. Lo fece per amore. Ecco, può darsi che in futuro, per amore – come Checco – o per una crisi che potrebbe avere risvolti imprevedibili (anche a causa del Coronavirus), chi ha il posto fisso decida di lasciarlo. D’altronde, qualcosa comincia già a muoversi nel mondo dei professionisti, gente che ha un posto fisso e potrebbe svolgere in proprio un altro tipo di attività, o la stessa, legata alle sue competenze. Può sembrare incredibile, ma l’Italia è la patria europea del lavoro autonomo, come emerge dalla ricerca Il lavoro autonomo in Italia della Fondazione studi consulenti del lavoro. Oltre 5 milioni di persone, pari al 21 per cento degli occupati. Un dato inferiore solo a quello della Grecia (29%) e superiore alla media dell’Unione Europea (14,3%). Inoltre, su poco meno di due milioni di lavoratori delle professioni aderenti al Comitato unitario professioni (Cup), circa 442 mila sono dipendenti pubblici (in gran parte nella sanità), 162 mila nel privato, 700 mila dipendenti di studi tra iscritti e non agli Ordini e 550 mila liberi professionisti. L’ultimo rapporto di Confprofessioni segnala un aumento del 17% tra 2011 e 2018, con autentiche esplosioni nelle aree medico-sanitaria (+53%) e scientifica (+38 per cento).
Come si vede, l’addio al posto fisso riguarda sempre di più i medici, molti dei quali preferiscono lasciare l’ospedale e proseguire come autonomi, sia per avere maggiori soddisfazioni personali sia per guadagnare di più. La stessa cosa può dirsi per gli ingegneri, visto che il mercato ha bisogno di servizi legati alla digitalizzazione, ai big data, al web design, ma anche di profili che si occupino di certificazione, risparmio energetico e di sicurezza. Molti consulenti del lavoro preferiscono operare in autonomia nella fornitura di servizi integrati di welfare. Più complesso il percorso per legali, tributaristi, giuslavoristi e altri professionisti del settore, spesso indotti a costituire studi associati per non farsi stritolare dalla concorrenza. Lavorare in proprio offre alcuni innegabili vantaggi, come la flessibilità degli orari, la possibilità di operare da casa o in un coworking, senza spese folli per l’ufficio e la convenienza fiscale.
Ma quanto costa lasciare il posto fisso, tranquillo, anche se spesso meno remunerativo? Secondo alcune ricerche di mercato, sono sufficienti 50 mila euro. Al contrario di quanto si pensi, le start up hanno un grande tasso di mortalità, ma quelle di successo e che resistono alla fase di partenza sono fatte da 50enni. Attenzione però a non illudersi di avere l’intuizione geniale, perché potrebbe rappresentare un handicap. Meglio non innamorarsi troppo dell’idea iniziale che può fallire o subire modifiche anche sostanziali per avere uno sbocco. Perciò, il consiglio è di far tesoro di ogni osservazione e di avere la mente aperta anche alle critiche, cercando di “vedere” oltre il nostro progetto. D’altronde, mettersi in proprio significa anche sfidare il mercato e la concorrenza e per farlo occorre non soltanto la capacità professionale nel settore in cui si agisce, ma anche abilità nel tessere rapporti, sapersi adattare alle esigenze del mercato e saper capire dove possano celarsi le opportunità ed essere in grado di coglierle. Insomma, significa volersi/doversi mettere in gioco, e sotto questo aspetto gli italiani certamente non mancano di iniziativa. Infatti, un altro aspetto interessante che emerge dall’analisi della Fondazione studi consulenti del lavoro, è che l’autonomia è una scelta. Tanto è vero che soltanto il 10,4% (in linea con la media europea), afferma di essere autonomo perché non ha trovato un’alternativa da dipendente. Piuttosto contano altri fattori: aver trovato una buona opportunità (39%) o proseguire un’attività di famiglia (24,2%), un dato, quest’ultimo, più alto della media Ue (15,8%) e che conferma la tendenza italiana al passaggio generazionale, molto ben radicata tra gli studi legali o tributari. C’è da dire, però che l’Italia è il paese dove più di tutti gli autonomi lamentano difficoltà sia per i periodi prolungati di assenza di clienti, sia il ritardo dei pagamenti.
Allora, se si è convinti di partire per questa avventura, vediamo come compiere i primi passi. Invitalia – l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, di proprietà del ministero dell’Economia – gestisce Nuove imprese a tasso zero, riservata a uomini under 35 e donne di qualsiasi età che abbiano costituito una società di persone da non più di un anno o che stiano per farlo. Il contributo arriva a coprire fino al 75% delle spese, per un massimo di 1,5 milioni di investimento, a fronte della presentazione di un business plan, preventivamente valutato. Il progetto va realizzato entro due anni dalla stipula del contratto di finanziamento erogato dalle banche convenzionate. Poi, ci sono le agevolazioni previste da Smart&Star, una misura del ministero dello Sviluppo economico che ha l’obiettivo di sostenere, su tutto il territorio nazionale, la nascita e lo sviluppo di startup innovative. Finanzia progetti compresi tra 100 mila e 1,5 milioni di euro, con la copertura delle spese d’investimento e dei costi di gestione. Per le società neo costituite, si tratta di due tipi di intervento: un contributo in conto impianti per la realizzazione dei programmi di investimento (il 65% delle spese ammissibili), e un servizio di tutoring tecnico-gestionale a sostegno della fase di avvio dell’impresa (fino a 5mila euro). Infine, c’è il Fondo innovazione annunciato dal ministero per lo Sviluppo economico, composto da due veicoli distinti: uno investe in fondi di venture capital privati a sostegno delle start up, mentre l’altro è dedicato agli acceleratori di impresa, con una dotazione complessiva iniziale di 200 milioni di euro. Come si vede, anche nei momenti bui si possono individuare percorsi per uscire dalla crisi o attenuarne gli effetti. L’importante è credere in quello che si vuole fare, come il Checco del film.