BENVENUTI IN GERMANIA CHI HA VOGLIA DI LAVORARE

By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 2 Aprile 2013

Simone M., romano, 30 anni, laurea in ingegneria, borsa di studio in Finlandia e specializzazione nel voltaico, chiamato in Germania, a Friburgo, dove va con sua moglie, Maria Teresa R., 25 anni, laurea in diritto in-ternazionale e con prospettive di lavoro; ambedue con ottima conoscenza dell’inglese, lei anche del francese. Enrico O., 33 anni, chimico bolognese, occupazione a Berlino. Giovanni R., 35 anni, avvocato catanese, specializzato in problemi del lavoro, opera a Monaco di Baviera. Michele S., 38 anni, da Torino, medico internista, assunto in un ospedale di Stoccarda. Sabrina S., veronese, 24 anni, infermiera ad Amburgo. Sono appena sei esempi fra gli oltre 32mila italiani (cifre ufficiali: potrebbero essere il doppio) che la Repubblica federale ha drenato nell’ultimo anno con offerte di lavoro soddisfacenti, un compenso dignitoso, una amichevole accoglienza. Un settimanale li ha definiti protagonisti del “sogno tedesco”; aggiungendo che senza di loro (e naturalmente senza altri stranieri di una decina di nazionalità per un totale di oltre mezzo milione) la congiuntura economica rischierebbe la paralisi. Per questo la ministra del lavoro Ursula von der Leyen ha parlato di una necessaria “cultura del benvenuto” da parte del suo paese, dove la disoccupazione è al minimo e centinaia di migliaia di posti di lavoro non sono coperti. I nuovi venuti si sentono moderatamente esuli e comunque cittadini di un’Europa che non è soltanto un nome, ma una risposta alle loro esigenze. Certo, non senza nostalgia del suolo natale, ma in condizioni differenti da quelle nelle quali si trovava, cinquanta anni fa, la generazione di emigranti, quella dei loro nonni, che li ha preceduti. Ricordo, dalle inchieste che ho condotto a suo tempo sui nostri “gastarbeiter” (i “lavoratori ospiti”), che mezzo secolo fa venivano in Italia i “cacciatori d’uomini”, per reclutare manovali, muratori, operai per l’industria pesante, e stanavano i più adatti. Oggi ci si affida ai “talent scout”, agli scopritori di talenti, essi stessi professionisti nei vari settori e con una provata capacità di selezione. Così si sono portati a casa (e sembra ne siano molto soddisfatti) parecchi di quelli di cui si parla: laureati, diplomati, specialisti e tecnici che ormai popolano Berlino, Stoccarda, Monaco di Ba-viera, Amburgo. Tutti con un buon curriculum ma, spesso, senza prospettive in patria. Anche perché, da noi, è pietosamente fallita l’iniziativa che fu presa nel 2009 con il fondo intitolato a Rita Levi Montalcini dall’ambizioso nome “Rientro dei cervelli”: ne sono tornati ventinove in tutto e sembra che qualcuno di essi si senta invogliato a ripartire. L’Italia è in testa fra le nazioni del sud Europa; ma è dall’est che arriva la maggioranza delle forze-lavoro: 150 mila dalla Polonia, 90mila dall’Unghe-ria, più di 40mila rispettivamente da Romania e Bulgaria. La Germania – è il grido d’allarme per politici e dirigenti d’industria – sta invecchiando e cerca forze per colmare il gap: la disoccupazione è al minimo, ci sono centinaia di migliaia di posti di lavoro non coperti. Questo spiega l’offensiva del sorriso. “La nuova qualità degli immigrati – dice la signora van der Leyen – è una felice occasione. Aiuta il nostro paese, lo rende più giovane, più creativo e più internazionale”. Quindi come parole d’ordine: “Benvenuti”, “Abbiamo bisogno”, “Il futuro si chiama Germania”. Forse c’è da riflettere prima di mandare in onda, qui da noi, alcune infelici affermazioni antitedesche.

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