BARACK OBAMA CONFERMA LA RIPRESA AMERICANA

Sino a poche settimane il presidente sembrava uno sconfitto terminale, dopo la conquista della maggioranza parlamentare da parte dei repubblicani. Ma il 5 per cento dell’aumento del prodotto interno lordo e le altre cifre positive di cui si è detto lo hanno evidentemente galvanizzato, mettendo, almeno per il momento, un po’ alle corde gli avversari Barack Obama ha sei mesi di tempo per favorire, nel novembre del 2016, la vittoria di un democratico, o di una democratica, nella corsa alla presidenza degli Stati Uniti. Dopo un paio d’anni di progressiva sfiducia da parte dell’opinione pubblica – i sondaggi lo davano pericolosamente sotto una audience del 40 per cento -, nel giro di qualche mese ha ritrovato il consenso di quasi metà degli americani. E, da politico consumato qual è, ne ha approfittato per partire al contrattacco dell’opposizione repubblicana che, appena pochi mesi fa, gli aveva inflitto un severo schiaffo elettorale conquistando la maggioranza nei due rami del parlamento.

Il presidente ha colto l’occasione del tradizionale discorso di metà gennaio sullo stato dell’Unione per impostare un discorso politico da mandare avanti sino alla fine dell’anno, prima cioè che cominci il carosello delle presidenziali. Con una attenzione particolare alla classe media, cioè a quella massa di americani (dinanzi alle tv erano ad ascoltarlo in 40 milioni) che voteranno fra un anno e mezzo, per affermare che la crisi è passata, l’America è più forte che mai, ed è il momento di pensare ai più deboli. Lo confortano alcuni dati macroeconomici, maldestramente contestati dai portavoce degli interessi costituiti: grandi capitali, banche, industrie monopolistiche, multinazionali (e forse criminalità organizzata).

Barack si è rifatto ad alcune cifre: undici milioni di posti di lavoro assicurati (un milione soltanto negli ultimi mesi), l’autosufficienza energetica che permette un risparmio in benzina di 750 dollari l’anno a famiglia, l’estensione della copertura medica a centinaia di migliaia di persone che in precedenza non ne godevano, le condizioni di favore per l’ingresso nelle università agli studenti meritevoli anche se non abbienti, la promessa dell’estensione del salario minimo garantito, le deduzioni per i piccoli contribuenti specialmente se con figli, l’aumento delle tasse a quell’uno per cento (ferocemente contrario) dei super-ricchi sino a oggi privilegiati dal sistema fiscale (il ricavo previsto sarà di 3200 miliardi di dollari in dieci anni per finanziare le riforme sociali). La lotta alle ineguaglianze (promessa o attuata) è la più importante carta elettorale che il presidente può giocare, con tutto il peso dei suoi poteri. Ma la battaglia si annuncia dura.

Sino a poche settimane fa sembrava, Obama, uno sconfitto terminale, dopo la conquista della maggioranza parlamentare da parte dei repubblicani. Ma il 5 per cento dell’aumento del prodotto interno lordo (il famoso Pil) e le altre cifre positive di cui si è detto lo hanno evidentemente galvanizzato, mettendo, almeno per il momento, un po’ alle corde gli avversari. Anche se non poche riserve possano essere avanzate, come fanno gli esperti di problemi finanziari di tutto il mondo, compresi quelli favorevoli alla sua politica. Egli non ha certamente spiegato come la grande crisi economica proprio durante la sua presidenza sia nata dal sistema bancario americano e da questo sia stata scaricata sul resto del globo (globalizzazione, infatti, si dice), sull’Europa, sulle nazioni emergenti e sui paesi detti in via di sviluppo (poveri, in realtà).

Infatti la parte più debole del progetto politico di Obama riguarda la politica estera. Negli otto anni della sua permanenza alla Casa Bianca non si sono chiuse le vicende più dolorose che affliggono il pianeta: dall’Irak, coinvolto in feroci conflitti interni, preda del terrorismo e delle autobomba, e alle prese con l’offensiva del califfato, all’Afghanistan, la cui situazione non è certamente risolta dal ritiro delle truppe dell’Alleanza atlantica; dall’Africa, che ha visto estendersi le guerre e le minacce degli oltranzisti pseudo religiosi, al Medioriente e dintorni, dove Siria e Libia, Yemen e Sudan grondano rivolte, genocidi e sangue. E il terrorismo è una minaccia incombente per il mondo intero.

Lo favoriscono, per contro, alcune circostanze obiettive. In primo luogo il rallentato ritmo di crescita della Cina, alle prese con problemi interni dei quali si ha, al di fuori, scarsa notizia, e le difficoltà della Russia di Vladimir Putin che, incartata nella questione ucraina, risente del calo del prezzo del petrolio e del crollo del rublo sui mercati finanziari. Un punto positivo Barack lo ha segnato, inoltre, con la ripresa dei rapporti con Cuba, apprezzata dalla sua opinione pubblica, e con la misurata gestione della vicenda del nucleare iraniano, che potrebbe condurre a un significativo successo diplomatico. In ogni caso, la politica estera non ha mai avuto un gran peso sull’opinione dell’americano medio: significativo il fatto che il discorso sullo stato dell’Unione vi abbia dedicato uno spazio abbastanza limitato.

Il quadro positivo che viene oggi da oltre Oceano offre anche all’Europa qualche elemento di speranza. La ripresa economica americana favorisce gli scambi e, coniugandosi con i recenti provvedimenti annunciati dal presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, può dare nuovo respiro al mercato del lavoro e dell’occupazione, alla produzione, alle esportazioni e alla dinamica commerciale. Anche gli ambienti economici europei, e non soltanto i cittadini statunitensi, si augurano che l’ottimismo del presidente sia fondato su solide realtà e, possibilmente a breve termine, si traduca in fatti concreti.