È comprensibile che nell’aspra campagna elettorale in corso per il rinnovo del parlamento europeo si critichino duramente le molte deficienze e gli errori delle istituzioni dell’Unione Europea, e il loro distacco dal sentire dei popoli che ne fanno parte. Ma è sconcertante che quasi si taccia, per esempio, su quello che ha significato per la pace, la sicurezza e il progresso civile, economico e sociale dei popoli del continente il processo che dal 1951 ha accompagnato l’allargamento (dai 6 paesi iniziali ai 28 di oggi) dell’Unione, l’aumento (sia pur lento e insufficiente) del peso politico delle sue istituzioni, l’integrazione economica, le conquiste civili, economiche e sociali rappresentate dalla caduta al suo interno delle barriere doganali, dalla libera circolazione dei cittadini, dalla unificazione dei trattamenti previdenziali e sanitari per i lavoratori dei paesi che ne fanno parte. Ed è pericolosa, infine, l’ondata di richieste perentorie (avanzata dai leghisti, dai grillini, da parte dell’ultrasinistra di Vendola e da settori della destra) della nostra uscita dalla zona dell’euro, e della riacquisizione dei poteri nazionali trasferiti all’Unione, quali premesse per vincere la crisi economica che da anni ha colpito il nostro come la maggior parte dei paesi del continente. La crisi, infatti, è in massima parte espressione non di eccessi ma di deficit di capacità di indirizzo e di governo delle istituzioni dell’Unione Europea in materia di politica estera, di difesa, monetaria, energetica, di ricerca, fiscale e sociale. Cioè di deficit per l’Unione di svolgere politiche tali da consentirgli di competere ad armi pari con le vecchie e nuove grandi potenze che nel mondo d’oggi dispongono non solo della forza demografica e di grandi risorse naturali, finanziarie e tecnologiche. Ma possono anche contare su sistemi politici e istituzionali che consentono loro decisioni rapide, a seconda delle esigenze che considerano vitali, che riguardino sia il comparto interno che il quadro internazionale. In questa (incontestabile) situazione appaiono assurdi i programmi leghisti di scindere l’unità nazionale per “dare libertà ai popoli oppressi del nord” e consentire loro di fare una propria politica estera ed economica. E quelli leghisti, grillini (ma anche di settori dell’ultrasinistra e del centrodestra) di rinegoziare alla radice i cardini dell’ Unione Europea. Si tratta di richieste assurde, perché una Unione Europea depotenziata nelle sue capacità di indirizzo e di governo politico e del suo potenziale economico, e squassata da esasperate divisioni interne finirebbe per essere ridotta a spazio di progressiva colonizzazione in una competizione mondiale non solo con le grandi, tradizionali e nuove grandi potenze dell’Occidente (Stati Uniti, Giappone, Canada, Australia). Ma soprattutto con le nuove grandi potenze, come Cina, India, Brasile, Russia, Indonesia, Sudafrica. Le chiacchiere anti-europeiste e anti-euro, infatti, non daranno mai risposte serie su come competere con paesi come la Cina, che in quattro anni ha costruito la linea ferroviaria ad alta velocità Pechino-Canton di 1500 chilometri; dove Shenzhen, che nel 1984 era un piccolo porto di poveri pescatori, oggi è il quarto al mondo per movimento merci, con 9 milioni di abitanti (cioè il doppio del Veneto e un terzo in più della Catalogna), ed è il paese che detiene nelle sue banche la più alta quota al mondo del debito pubblico americano. O con paesi come l’India (e mi fermo a questi due esempi) i cui imprenditori e finanzieri controllano le più grandi acciaierie d’Europa, e le fabbriche automobilistiche che producevano (e producono) le Rover e le Jaguar; e che “esporta” matematici e informatici soprattutto negli Usa. Anche il superamento della grave crisi economica e sociale che pesa sull’Italia e il nostro migliore futuro “nazionale”, dunque, è condizionato da più e non da meno unità politica, monetaria, economica e sociale dell’Unione Europea. E a questo dovremo pensare andando a votare il 25 maggio; senza lasciarci suggestionare da chi propone di risolvere i nostri problemi del presente e del futuro con pochi colpi di bacchetta magica: tornare alla lira e fare dell’Italia uno spezzatino di stati, magari in rissa permanente.
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