“ANZICHÉ CON LA CAMICIA SONO NATO IN CARROZZINA…”

Mattia Muratore e le sue ossa di “cristallo”
By Gino Consorti
Pubblicato il 31 Agosto 2022

Laurea in Giurisprudenza, impiego all’università Bicocca, capitano della Nazionale italiana campione del mondo di hockey su carrozzina elettrica, ambasciatore dello sport paralimpico. La bella storia di chi è vissuto sempre controvento senza però piangersi addosso…

A quelli che, invece di star fermi ad aspettare il momento giusto, preferiscono fare altro. Vivere per esempio. È la dedica con la quale Mattia Muratore ha voluto aprire il suo godibile libro Sono nato così, ma non ditelo in giro (Chiarelettere Editore, pp.304, euro 16,90). Un racconto ironico

ma nello stesso tempo privo di orpelli e commiserazione sulla sua disabilità. La sofferenza, infatti, l’ha conosciuta da subito, come anticipa il titolo del volume, ma la sua vita non è stata cambiata da una sedia a rotelle. O meglio, l’Osteogenesi Imperfetta, la “malattia delle ossa di cristallo”, ha sortito l’effetto contrario tirando fuori in lui una grande volontà e soprattutto un pensiero sempre positivo che ha trasformato la sua vita nel concreto. Ha tirato fuori tutta la forza che, forse, non pensava di possedere, raggiungendo traguardi incredibili. Il messaggio di Mattia, infatti, è proprio questo, credere nei sogni. E soprattutto non bisogna vivere aspettando, ma sperando.

Il noto cantautore Luciano Ligabue, nella prefazione, lo giudica una forza della natura. Come dargli torto? Sin da bambino, infatti, Mattia aveva già collezionato una serie impressionante di fratture alle ossa. Quanti ricoveri, analisi, radiografie, camici bianchi, anestesie, interventi chirurgici, fisioterapie e soprattutto sofferenze si rincorrono nella sua mente. Eppure, alla fine, ha vinto lui. La sua quotidianità dimostra come nessuna situazione possa rivelarsi così tragica da spegnere l’ultima fiammella di speranza. C’è sempre una circostanza che ci offre la possibilità di resistere e reagire. E Mattia lo ha fatto alla grande. Trentotto anni, una laurea in Giurisprudenza con relativa abilitazione alla professione di avvocato, oggi Mattia lavora presso l’università degli Studi di Milano-Bicocca. La sua vita sociale può definirsi certamente molto attiva e la sua grande passione è lo sport. In particolare, il powerchair hockey (hockey su carrozzina elettrica). È capitano e presidente degli Sharks Monza, squadra in cui milita da quasi 25 anni. Nel 2018, con la Nazionale italiana di cui è stato capitano, ha vinto il Campionato del mondo. È ambasciatore dello sport paralimpico e partecipa a incontri di vario genere al fine di promuovere i valori dello sport e del paralimpismo.

Spesso le persone felici si sentono più libere e spontanee. Dopo aver conosciuta la vita di Mattia, ne sono assolutamente convinto.

Nel tuo bel libro parli dei vantaggi innegabili che un disabile ha. Ce ne dici qualcuno?

Sorvolo sulla fortuna di non dover aspettare gli “ottanta” per la pensione, sul cinema gratis, sullo stadio gratis, sui concerti gratis, sui parcheggi gratis in centro dove non trova mai posto nessuno e via così… Io mi riferisco a ben altro, parlo di libertà, quella vera, inebriante, dopante. Pensateci. A chi non è mai capitato di svegliarsi una mattina con la voglia potente di fare un po’ di casino? Farla pagare a qualcuno? Ad esempio rigare la macchina di quello sotto che parcheggia sempre male, oppure far cadere dell’acido muriatico sulla siepe del vicino che invade il tuo giardino… Ecco, se sei disabile puoi farlo…

Senza giri di parole ti definisci uno di quelli che ce l’hanno fatta e ne vanno fieri…

Certo. Anziché nascere con la camicia sono nato con la carrozzina. Che poi, a voler essere pignoli, sono nato senza. Me l’hanno comprata dopo…

Ti va di parlare della tua patologia?

Nessun problema. La prima cosa che arriva non è il dolore. È il rumore. Sordo, secco, improvviso. Come la punta di una matita che si spezza, magari proprio quando sei più concentrato a disegnare la tua vita. La chiamano la “malattia delle ossa di cristallo”. Siamo gli uomini di vetro, quelli che dovrebbero andare in giro con la scritta “Fragile” sulla schiena, ma che in realtà viaggiano con un centinaio di fratture all’attivo e una bella bomba in tasca pronta a esplodere in ogni momento. Basta poco. Molto poco. Un gradino non visto, un urto anche solo accennato. Uno starnuto. E la bomba scoppia. Il cristallo di cui siamo fatti va in mille pezzi. E con lui anche la nostra quotidianità e quella di chi ci sta vicino.

Quella matita però tu l’hai sempre ripresa in mano…

Sì, tenendola ben stretta tra le dita. Sarà un po’ più corta, certo, ma ancora del colore che vuoi tu. E, finalmente, via di nuovo. Incontro a un’altra dose di vita. Davanti a un sole che scalda. Sempre con il vento in faccia e la tua bella bomba in tasca. In attesa del prossimo, inevitabile, giro di giostra.

Giro di giostra che, ad esempio, arrivò in occasione della tua prima partita di calcio vista allo stadio Giuseppe Meazza di Milano…

Proprio così. Era appena iniziata la primavera del 1998. Io frequentavo ancora le medie. Si erano da poco concluse le Olimpiadi invernali di Nagano, con la Compagnoni sugli scudi. Era il periodo in cui tutta Italia aveva ancora negli occhi la tragedia del Cermis. Il periodo in cui DiCaprio e la Winslet, nei panni di Jack e Rose, stavano sbancando i botteghini dell’intero pianeta. Ma soprattutto era il periodo in cui Ronaldo, il brasiliano, stava illuminando il calcio italiano con la maglia dell’Inter. In quel momento il Fenomeno era, senza alcun dubbio, il giocatore più forte del mondo. E tutti, me compreso, avevano un bisogno quasi fisiologico di vederlo giocare dal vivo. Nonostante le pressioni contrarie della mia famiglia – “non andare, è pericoloso, allo stadio ci si mena, ci si droga…” – riuscii a organizzarmi per andare a vedere il derby insieme a Francesco, mio compagno di classe e di fede nerazzurra. Ci avventurammo, come due pulcini nella tana di un lupo, alla ricerca dell’ingresso riservato ai disabili, Lo trovammo a fatica. Era ben nascosto. com’è ovvio che sia per tutto ciò che riguarda gli handicappati, sia mai che vengano messi troppo in mostra…

Poco dopo iniziò la partita e il centrocampista dell’Inter, Simeone, oggi allenatore dell’Atletico Madrid, gonfiò la rete…

La curva impazzì. Il boato fu incredibile. La terra si mise a tremare, il cielo a sussultare, il terzo anello a barcollare, la luna a saltellare. Vidi persone in carrozzina accanto a me scattare all’improvviso in piedi, forse graziate dal Signore, più probabilmente liberate dalla finzione messa su per non pagare il biglietto. Io mi ritrovai stritolato in un abbraccio, ci volevamo tutti bene. Eravamo tutti parte della stessa identica vita che scorreva nelle nostre vene. Eravamo in vantaggio.

Fine primo tempo. Ronaldo il fenomeno, però, non aveva combinato un granché…

Ronaldo combinò poco, anche se ogni volta che aveva il pallone tra i piedi era pura poesia. La scena se la prese tutta, e di colpo, al minuto 31 della ripresa. Da un lancio millimetrico di Moriero ricevette il pallone giusto, lo coccolò per un istante, gli sussurrò all’orecchio dove andare e poi, con una morbida carezza di esterno destro, gli fece disegnare un semicerchio così perfetto che Giotto sarebbe morto d’invidia. Depositandolo lì, dove mai nessuno sarebbe potuto arrivare. Dentro la porta. San Siro si spaccò in due.

Purtroppo, però, si spezzò anche qualcos’altro…

Peccato che in mezzo a quel boato nessuno avesse percepito un altro rumore. Un rumore più sordo, più secco, più morboso e inquietante che però, a suo modo, fu in grado di farsi sentire molto bene. Il rumore di un osso che si spezza. Un femore sinistro. Il mio. Troppa la bellezza a cui avevo appena assistito. Troppo rapida, troppo inaspettata, troppo fulminea quella giocata. La semplice contrazione del muscolo dovuta alla scarica di adrenalina, l’impulsivo e incontrollabile spasmo dato dalla deflagrazione dei novantamila lì intorno. Bastò questo. Nella confusione generale feci fatica ad attirare l’attenzione di Francesco e degli altri che avevo vicino. “Mi sono fatto male, mi sono fatto male!” urlavo con quanto fiato avevo in gola. Ma tutti si abbracciavano, tutti godevano, tutti avevano occhi solo per quel gol, per quell’attimo scolpito, per quel 10 che correva a braccia spalancate verso la gloria. Mi sentii quasi in colpa all’idea di dover rovinare loro quel momento. Di doverli riportare alla realtà, tirandoli giù con forza da quel pianeta su cui li aveva appena spediti Ronaldo. Avevo già avuto decine di fratture. Ma quella volta fu diverso. Quella volta fece ancora più male. Non c’era solo il dolore, pur lancinante. C’era la rabbia per essere costretto ad andare via, per non poter continuare ad assaporare quello spettacolo, per dover abbandonare la festa nel momento più divertente, per dover portare via anche il mio amico Francesco. Ma soprattutto rabbia per aver ricevuto l’ennesimo schiaffo. L’ennesima conferma che io e lo sport non eravamo fatti per andare d’accordo.

Ti piaceva tanto…

Vivevo di sport. Avevo bisogno di respirare costantemente il sapore della sfida. Ma quella sera di inizio primavera, davanti a Ronaldo e a quelle novantamila persone senza fiato, sembrava proprio essere piovuto dal cielo il verdetto finale. I miei, forse, erano davvero sogni a occhi aperti e nient’altro. Troppo impietosa la mia malattia. Troppo fragili le mie ossa. Come potevo pensare di fare un gol se riuscivo a farmi male anche solo guardando un altro segnarne uno? Ma nonostante il dolore, nonostante la rabbia e la frustrazione, nonostante l’abbandono delle forze, la voglia di piangere, la faccia preoccupata di Francesco, nonostante la voglia di restare lì andai via dal mio primo San Siro col sorriso sulle labbra.

Da cosa arrivava quella felicità?

Mi era bastato poco per capire che quel posto aveva cambiato qualcosa dentro di me. Racchiudeva storie, leggende, miti, capolavori, personaggi, vittorie, sconfitte, amici ritrovati, ragazze conquistate, misteri, amore.

E la passione per l’hockey come è nata?

A mettermi in mano una mazza da hockey è stato il mio professore di educazione fisica, uno dei pochi che, anziché tenermi in disparte o al massimo farmi fare l’arbitro, si è ricordato che il suo mestiere implica anche il dovere di aiutare gli alunni a cercarsi una strada e si è sforzato di trovare qualcosa di meglio. Sono entrato a far parte degli Sharks dopo averli conosciuti per caso durante una loro raccolta fondi. In quel periodo stavo quasi per rinunciare definitivamente all’idea di fare sport, nonostante per me fosse un’esigenza primaria, un sogno che avevo inseguito e coltivato da sempre.

Ti eri avvicinato anche ad altri sport?

Li avevo provati tutti, davvero tutti. Partendo dallo sport per disabili più famoso, il basket. Al primo pallone che mi hanno passato mi sono partite tre falangi e ho capito che forse non era cosa per me. Poi nuoto, tiro con l’arco, handbike, freccette, ho provato persino il biliardino, ma ero troppo basso per vedere il tavolo da gioco. Restava solo di darmi alle bocce coi vecchi del paese. Nessuna disciplina sembrava andare d’accordo con le mie ossa fragili, con la mia schiena storta, con le mie articolazioni mollicce. Poi, però, sono arrivati loro, gli Sharks, una combriccola di disabili e volontari matti da legare che mi ha messo sotto il naso il powerchair hockey, ossia l’hockey su carrozzina elettrica. Uno sport strano, sconosciuto, complicato. Ma anche maledettamente bello ed entusiasmante. La prima volta che ho visto una partita sono rimasto senza parole.

È stato un amore a prima vista…

Assolutamente si. Ho capito che sarebbe stata una passione senza limiti, ciò di cui avevo bisogno. Ci ho messo poco a capire che mi avrebbe cambiato la vita. Da quel momento in poi, l’hockey è diventato il mio pensiero fisso. Ore e ore trascorse a riflettere su come migliorare.

Non hai paura di farti male?

La paura di farmi male mi condiziona parecchio, ma l’attrazione per questo nuovo mondo è più forte, devi capire fino a che punto puoi spingerti, e l’unità di misura perfetta è la paura stessa. Sai di avere questo sport nelle corde, di poterci riuscire, di poter combinare qualcosa di buono. Non sai quando, non sai quanto. Ma sai di averne. Prima, però, devi disegnare il perimetro dei tuoi limiti, dopodiché passerai all’azione, comincerai a fare sul serio. Con la giusta cattiveria, con la giusta precisione, con la giusta determinazione, dovrai buttare giù un sacco di muri. Forse, l’hockey non è lo sport più indicato per uno con le ossa di cristallo, ma il pensiero di Oscar Wilde mi è di grande aiuto: Meglio essere protagonisti della propria tragedia che spettatori della propria vita.

A proposito di paura, cosa ricordi quando la maestra d’asilo ti co-strinse a buttarti dal trampolino durante una festa in piscina?

Quella giornata è ben impressa nella mia mente. L’adrenalina per la possibilità di fare finalmente qualcosa di nuovo. Il prato verde con l’erba tagliata intorno alle vasche d’acqua azzurra. Gli scivoli per quelli più grandi, che a noi erano ancora vietatissimi. Ricordo tutto questo e molto altro ancora. Soprattutto ricordo il suo sguardo di ostentata allegria, fiducia, falsamente invitante, mentre si avvicinava e mi proponeva: “Dai, tuffiamoci in acqua. Guarda come fanno i tuoi amici”. “Ma… no – ho risposto quasi incredulo – lo sai che mi faccio male”. “Cosa c’è, non ti fidi di me? Secondo te io ti farei mai del male?”. “No, ma se ci tuffiamo mi faccio male”. A quell’età ero già perfettamente consapevole dei limiti imposti dalla mia patologia, e iniziavo ad avere un’idea delle cose su cui avrei potuto lavorare per spingermi oltre e di quelle che, invece, proprio non ammettevano forzature. Ecco perché ero certo che non sarebbe finita bene. Che le mie ossa non avrebbero retto. Che avrei sentito male, tanto male…

Nessuno riuscì a farle capire la gravità della cosa?

Purtroppo no. Provai in tutti i modi a ribellarmi, ma avevo quattro anni e lei quasi trenta… Ricordo ancora il momento in cui mi sono arreso. Mi sono lasciato avvolgere dalle sue braccia e sollevare dal passeggino. Gli occhi vuoti, abbandonati. Gli occhi di chi è perfettamente consapevole del destino a cui sta andando incontro. Ero terrorizzato. Rigido come una roccia. Una roccia molto friabile…

Quale fu il risultato?

L’impatto con l’acqua, la contrazione dei muscoli pronti all’urto, e una delle tibie ha fatto tac. Un suono secco, come un ramoscello che si spezza. I bambini che erano abbastanza vicini per sentirlo, quel rumore non lo dimenticheranno mai, credo. Quando siamo riemersi dall’acqua urlavo e piangevo, mi dimenavo e ripetevo “lo sapevo, lo sapevo, te l’avevo detto”, ero molto arrabbiato. Forse perché in quei giorni stavo bene, mi trovavo in uno di quei rari e brevi periodi di quiete che la mia malattia a quel tempo mi concedeva e, chissà, magari desideravo prolungarlo il più possibile. Piangendo per l’incazzatura e il dolore, le ho detto subito che mi faceva male la gamba. Lei mi ha guardato storto. “Dai, smettila – mi ha risposto con un sorrisetto beffardo – adesso non cercare di farmi sentire in colpa per averti obbligato a tuffarti con me”.

E tu?

“Ho male alla gamba, me la sono rotta”. Mi sono messo a urlare più forte, ma lei continuava a sorridermi in un modo per me inconcepibile. Più io urlavo, più mi dimenavo, più cercavo di farle capire quanto quella maledetta gamba mi facesse male, più lei si arrabbiava con me. Poi, da quel sorriso strano, è passata a essere furiosa. Non mi credeva. Non credeva alle mie parole e alle mie lacrime, non credeva al mio dolore. Non le bastava sentirmi piangere e urlare, vedere le mie mani strette sul punto della frattura né guardare i miei occhi…

Com’è finita?

Non so cosa sia successo quando i miei genitori sono venuti a prendermi e mi hanno trovato in quelle condizioni… Sinceramente non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo, per paura della risposta. So però che lei la sua bella carriera di maestra d’asilo se l’è fatta tutta, e quindi forse dovrebbe ringraziare i miei genitori. Per la loro clemenza, per la loro pazienza, per la loro comprensione. Perché se avessero voluto rovinarle la vita probabilmente non ci avrebbero messo molto. Comunque in tutta questa storia c’è una cosa che più di altre fatico ad accettare…

Cosa?

Nella vita ho dovuto faticare tantissimo per acquistare sicurezza e determinazione. Per riuscirci ho dovuto metterci il triplo dell’impegno rispetto a chiunque altro, andando contro i miei limiti e le mie paure. Lei, quel giorno, ha fatto nascere in me una debolezza che non mi apparteneva. Anziché rafforzarmi, mi ha reso un po’ più fragile. Come se le mie ossa da sole non bastassero…

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