ALLA RICERCA DI UN RILANCIO FRA TANTA CONFUSIONE

Ciò che è accaduto è un serio campanello d’allarme per l’Unione, perché ha materializzato in modo evidente la “stanchezza” da parte di molti cittadini che a questa grande, indispensabile istituzione chiedono un supplemento d’anima, più solidarietà e crescita e non una serie di misure burocratiche

Il 2017 ci farà assistere a un singolare paradosso: nel sessantesimo anniversario dalla firma dei Trattati di Roma, che sancirono nel 1957 l’avvio, fra i sei paesi fondatori, del Mercato comune, poi Comunità europea, infine Unione Europea (questo il nome deciso a Maastricht nel 1993), alla presidenza semestrale della UE siederà per statuto il Regno Unito di Gran Bretagna, Scozia, Galles e Irlanda, un paese cioè che ha deciso, con voto popolare nel giugno 2016, di riprendere la propria autonomia e uscire dall’Europa. Che sarà quindi a 27 e non più a 28.

È stato vissuto come uno psicodramma l’esito del cosiddetto Brexit che ha stordito un po’ tutti i protagonisti della consultazione (51,9 per cento a favore dell’uscita, 17.410.742, contro quelli che volevano restare, 48,1 per cento, 16.141.241) e gli spettatori dell’intera Unione, còlti di sorpresa dal risultato del voto. Nonostante la valanga di articoli e di commenti, sembra ancora presto per valutare le conseguenze del divorzio, sia sul piano interno, sia su quello europeo.

In primo luogo perché l’attuazione del referendum si presenta assai macchinosa, in quanto prevede una serie di passaggi – della durata di due anni – fra parlamento inglese, Consiglio, europeo, parlamento europeo e altri organismi comunitari, passaggi che rallenteranno l’uscita e in seguito porteranno inevitabilmente a frizioni e tensioni. Esse potranno prolungarsi per quei cinque o sei anni necessari a rivedere diecine di migliaia di accordi e trattati. Con il rischio – segnalato dal nostro ministro egli esteri Paolo Gentiloni – di un’Europa che resti “ostaggio” delle lungaggini, degli interessi e, perché no?, dei ricatti britannici.

Il Brexit è un serio campanello d’allarme per l’Unione, perché ha materializzato in modo evidente la “stanchezza dell’Europa” da parte di molti cittadini che a questa grande, indispensabile istituzione chiedono un supplemento d’anima, più solidarietà e crescita e non una serie di misure burocratiche. Anche se non ci si rende sempre pienamente conto degli esiti positivi che l’UE offre sul piano della quotidianità, forse perché quei risultati non sono bene narrati: come se non bastassero sessanta anni di pace, l’assenza di guerre commerciali (che fra il XIX e il XX secolo avevano portato a decenni di conflitti armati), lo scambio di rapporti economici e culturali fra cittadini di ventotto paesi diversi, la possibilità di muoversi e conoscere molteplici altre realtà.

È difficile, dopo il voto inglese, prevedere il futuro: la politica è smarrita, i vertici si agitano in cerca di proposte che da un fallimento, come quello del Brexit inglese, possano portare a un rilancio, la parola magica che vuole riattizzare le speranze. Intanto se ne pagheranno le conseguenze: prevedibili le difficoltà sui mercati finanziari non soltanto per i bilanci dei cittadini e i risparmiatori, ma anche per la tenuta dei conti pubblici dei singoli paesi, con l’aumento del debito e la diminuzione del prodotto interno lordo. Il prezzo più alto sarà probabilmente a carico del Regno Unito, con un costo presunto di 9.600 miliardi di euro che graveranno in gran parte sui contribuenti.

Si capisce quindi come la crisi post-Brexit investa in primo luogo gli inglesi, con un capo del governo, David Cameron, che si dimette e si rifiuta di collaborare al passaggio delle consegne, mentre i due grandi partiti tradizionali, il conservatore e il laburista, sono in piena crisi nelle scelte del successore. Scossoni interni agitano la Gran Bretagna, nettamente divisa in due, a sud (l’Inghilterra vera e propria e il Galles) favorevole all’uscita, mentre massicciamente al nord la Scozia e l’Ulster sono per la permanenza nella Ue. Al punto che il parlamento scozzese si prepara a una dura battaglia per ottenere l’indipendenza (dopo il fallito referendum di due anni fa) e per aderire quindi, come stato sovrano, all’Unione. Ancora più delicata la situazione nell’Irlanda del Nord, che ha votato a maggioranza per restare. Qui potrebbero scoccare scintille di un nuovo conflitto interno cattolico-protestante dopo la proposta, per la verità un po’ provocatoria, di ricongiungersi alla Repubblica d’Irlanda per rimanere in Europa.

Le due situazioni non sono fatte per rassicurare sul tranquillo andamento del negoziato che dovrà portare il Regno Unito fuori dalla Ue. Anche perché l’opinione pubblica inglese favorevole al “remain” non si rassegna: sono state raccolte in poche ore due milioni di firme per un altro, poco probabile,  referendum che cancelli il Brexit. A parte questo soprassalto, bisognerà piuttosto chiedersi come mai molti di quei giovani di cui si favoleggiava fossero attaccati all’Europa non siano andati, come risulta da alcune indagini, alle urne. Nelle democrazie, il risultato è di chi se lo merita.

Il difficile rapporto anglo-europeo è sintetizzabile in qualche immagine prestata dalla storia. Agli inizi degli anni 60, quando Londra premeva per entrare nel Mercato comune, il primo ministro Harold Macmillan perorò la sua causa con il presidente francese, il generale Charles de Gaulle, che alla richiesta rispose con la celebre frase: “Ne pleurez pas, Milord”, ma l’Inghilterra non ce la vogliamo. Alcuni anni più tardi, a ingresso avvenuto, il primo ministro Margareth Thatcher nel condurre una guerra di logoramento contro l’Unione gridava come una gallina impazzita: “Ridatemi i miei soldi”, alludendo ai contributi che Londra doveva versare alle casse di Bruxelles. E poco prima dello svolgimento del recente referendum il presidente del Consiglio europeo, Jean-Claude Juncker, ha detto seccamente: “O dentro o fuori”. E fuori sarà, anche se con rammarico.