Il prossimo 6 novembre negli Stati Uniti si rinnoverà la totalità (435) dei membri della Camera dei Rappresentanti e un terzo, 33, dei senatori Il prossimo importante appuntamento internazionale è soltanto all’apparenza un episodio di politica interna: il 6 novembre negli Stati Uniti si rinnoverà la totalità (435) dei membri della Camera dei Rappresentanti e un terzo, 33, dei senatori. Sino a oggi la maggioranza delle due istituzioni elettive era composta dai repubblicani, quindi in appoggio all’attuale presidente Donald Trump; da novembre in poi potrebbe non essere più così, come i sondaggi fanno prevedere, e il capo dell’esecutivo si troverebbe in minoranza almeno in una delle due Camere se non, nella peggiore delle ipotesi per lui, in ambedue. In tutti e due i casi troverebbe seri ostacoli alla politica, diciamo, disinvolta condotta dagli Usa negli ultimi due anni e dovrebbe fare i conti con alcune difficoltà personali che l’opposizione non mancherebbe di procurargli. E con la prospettiva di compromettere addirittura la rielezione del 2020 alla quale Trump si sta preparando. L’opinione pubblica internazionale non è tanto interessata alle vicende interne – al limite del pettegolezzo – in cui il presidente è coinvolto, quanto al fatto che gli Stati Uniti stanno lentamente rinunciando a quel ruolo di mediazione, con tutti i suoi inevitabili errori, che si è rivelato importante e utile almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Non ci si rivolge più all’America come a un padre saggio, capace di intervenire nelle grandi questioni mondiali e di prospettare soluzioni: oggi l’Africa è abbandonata nelle rapaci mani della Cina, si lascia il Medio Oriente alle ambizioni e alle egemonie regionali (Arabia Saudita, Iran, Turchia), si considera l’Europa, in dichiarazioni pubbliche e private, non più una alleata e quasi una rivale e si ha l’impressione che si preferirebbe non esistesse nella forma attuale, si è lasciato cadere l’ago della bilancia a favore di Israele, con l’improvvida decisione di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme, lasciando i palestinesi al loro destino. E sono soltanto alcuni episodi maggiori di una serie di decisioni al limite dell’improvvisazione.
In passato la diplomazia americana è stata capace di giocare sulla serie e sull’insieme dei rapporti che si venivano man mano istaurando a livello globale; oggi si ha l’impressione che prevalga una psicologia da far west, la logica del pistolero. Con lo slogan America first, l’America prima di tutto, si demolisce quanto nei decenni si era costruito nell’immaginario collettivo, un paese dell’accoglienza, della tolleranza, aperto alle innovazioni e capace di capire “l’altro” e, al di là dai suoi errori, di entrare in dialogo. In questi ultimi due anni stiamo assistendo a uno spettacolo di macerie. L’uscita dall’accordo sul clima favorisce negli Usa i peggiori aspetti dello sfruttamento capitalistico, giungendo, da parte dei tenutari di risorse energetiche, a negare il degrado ambientale. Il ritiro unilaterale dal Trattato di commercio transpacifico è stato anche un errore politico, perché mette in mano alla Cina i traffici di due oceani; e i dazi successivamente imposti a Pechino, con le relative rappresaglie, fanno parte di una guerra di cui è difficile predire il vincitore. La denuncia dell’intesa sul nucleare con l’Iran (l’accusa di continuare a sviluppare l’atomica si è rivelata infondata) induce a una crisi di rapporti con gli alleati occidentali di cui non è possibile ancora valutare le conseguenze. E sono soltanto tre esempi di una politica avventurista.
Da parte governativa si fa valere l’attuale crescita dell’economia americana, attorno a un +4% l’anno, l’aumento dei consumi e dei salari; con qualche preoccupazione, peraltro, da parte degli esperti che si chiedono se i ritmi resisteranno e quali saranno, a termine, le ricadute del boom in corso. Le elezioni di medio termine potranno costituire un primo termometro sia della popolarità del presidente, sia della salute della società americana. Tutti attendono con curiosità e forse con timore il verdetto delle urne.