A CHI GIOVA IL CREPUSCOLO dell’INFORMAZIONE?

Cui prodest? A chi giova? In-somma, a chi conviene che in Abruzzo il processo di desertificazione dell’informazione ha imboccato una china inarrestabile? Anzi, proviamo a rovesciare la domanda. A chi nuoce che giornali di grande tradizione, come Il Tempo, dopo decenni di presenza sul territorio abruzzese chiudano definitivamente; che giornali, come Il Messaggero, decidano di abbandonare l’area aquilana che più di altre, in questo momento, ha bisogno del massimo della copertura mediatica per evitare infiltrazioni malavitose nella ricostruzione; che televisioni, come Rete8, vogliano ridimensionare gli organici per precarizzare tutto il settore dell’informazione?

Casi eclatanti che si affiancano ad altri, per così dire, di minore portata ma che vanno tutti nella stessa direzione: chiudere, ridurre, tagliare, ridimensionare l’informazione. I primi a pagare un duro prezzo, ovviamente, sono i giornalisti con rottamazioni anticipate, licenziamenti, cassa integrazione a zero ore, tagli ai miserrimi compensi dei collaboratori. Una situazione che va avanti, ormai, da anni e non da ieri, che sta causando la precarizzazione della professione giornalistica come mai era avvenuto in passato. Finché pagano i giornalisti, si potrebbe obiettare, poco male: sono una categoria che ha avuto grandi privilegi in passato, non hanno buona fama per la loro contiguità con il potere, sono addirittura loro che hanno convinto i cittadini dell’Aquila a rimanere in casa durante il terremoto del 6 aprile 2009 (questo ha sostenuto la difesa dei componenti la commissione Grandi rischi, sì proprio quelli che fecero una riunione all’Aquila alla vigilia del terremoto per rassicurare la popolazione). Perché allora prendersela tanto se chiudono giornali, se tagliano i loro compensi di fame e se anche i giornalisti assaggiano i penosi percorsi della precarietà e della discesa agli inferi nella scala sociale? Anzi più che darsi pena si potrebbe provare un certo godimento nel costatare che la casta non è più intoccabile.

E poi a che cosa possono servire più i giornalisti oggi che i social, in qualche modo, han-no elevato tutti noi al rango di comunicatori?

Proviamo a fare un po’ di chiarezza. Per quanto riguarda i social network basterebbe solo dire che le loro piattaforme sono state create con l’obiettivo del profitto, non con l’idea di creare un contesto democratico globale di dibattito interculturale. Essi stanno trasformando l’idea di opinione pubblica nella convinzione che molte opinioni soggettive (espresse nei forum, tweet, facebook) si trasformino per incanto in verità rivelata solo per qualche decina di like. Ci vuole ben altro per strutturare l’opinione pubblica consapevole e in grado di giudicare criticamente l’operato di chi esercita la delega democratica, ossia i politici, e di chi manovra le leve del potere economico. Per questo occorre un’informazione di qualità capace di creare significato nel grande marasma delle informazioni che ogni giorno ci raggiungono in ogni luogo. Perché si possa esercitare, fino in fondo, una cittadinanza consapevole, è necessario che l’informazione sia collocata nel giusto contesto, le sia attribuito il rilievo contenutistico che merita e le opportune valutazioni sulle conseguenze che può produrre. Un processo, dunque, che ha bisogno di metodo e non può che essere quello giornalistico, ossia il metodo della critica delle fonti.

Diversamente tutto diventa comunicazione, tutto si riduce acriticamente ai comunicati stampa, tutto si sposta verso chi produce la comunicazione a scapito dell’informazione che, invece, ha bisogno di mediazione culturale.

A chi potrebbe giovare una “repubblica dell’algoritmo” se non ai demagoghi, ai politici disonesti, agli imprenditori che rivendicano libertà di sfruttamento, ai truffatori di ogni risma?

Non occorre sintetizzare conclusioni, ma un’equazione forse si potrebbe azzardare: meno informazione più comunicazione, più comunicazione meno opinione pubblica.

L'ECO di San Gabriele
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